Quali sono le funzioni svolte da un bosco?
La funzionalità di un ecosistema viene definita dalla sua capacità di fornire servizi e beni. Nel caso dei boschi carsici, i beni forniti (legname e derivati) sono piuttosto scarsi e limitati al legno da combustione. Rimangono però intatte tutte le funzioni ecologiche, il cui valore ormai si riconosce essere superiore a quello economico, anche se difficilmente monetizzabile. Le principali sono: stoccaggio della CO2 (anidride carbonica), accumulo longevo di biomassa, creazione e difesa del suolo, produzione di ossigeno, purificazione dell’aria e difesa dalla diffusione delle specie aliene, ecc. Con il deperimento del bosco l’efficienza funzionale si deprime.
Qual è lo stato di salute dei boschi sul Carso triestino?
Preoccupante, soprattutto per quelli su suoli calcarei permeabili. Lo stato di lungo abbandono, il venir meno di cure selvicolturali, il riscaldamento climatico con il susseguirsi di una serie di estati siccitose, gli incendi forestali e gli attacchi parassitari, hanno determinato un declino biologico progressivo del manto forestale carsico.
Quali specie legnose hanno subito i maggiori danni?
Innanzitutto il carpino nero (Ostrya carpinifolia) e poi il pino nero (Pinus nigra), introdotto intorno alla prima metà dell’800 a scopo di rimboschimento, nonché la roverella (Quercus pubescens), anche se in misura minore rispetto ai primi due.
Quali sono i sintomi attraverso cui si manifesta il declino di queste specie?
Per il carpino nero, i principali sintomi sono dati dalle estremità dei rami che si seccano, dal diffuso disseccamento delle foglie, nonché dalla produzione eccessiva di frutti (iperfruttificazione). Questa sindrome è particolarmente evidente sugli individui ceduati, ossia su quelli che sono stati sottoposti al taglio frequente in un lungo periodo, che ha quindi portato all’esaurimento delle ceppaie. L’abbandono della ceduazione, avvenuto intorno agli anni ’50 a seguito della sostituzione del combustibile legnoso da parte dei combustibili fossili, ha sì favorito l’espansione del bosco, ma al contempo ha determinato un indebolimento progressivo soprattutto del carpino nero, poiché è cessata la selezione dei polloni in numero eccessivo, che hanno esaurito le ceppaie. Sugli individui così indeboliti, il riscaldamento climatico ha ulteriormente accentuato il deperimento dei soggetti, favorendo l’aggressione di agenti patogeni secondari (funghi ed insetti).
Bisogna ricordare che il carpino nero costituisce oltre un terzo della massa legnosa dei nostri boschi: il decadimento si manifesta soprattutto sui versanti a sud e sui suoli poveri con estesi affioramenti rocciosi, mentre i sintomi risultano notevolmente attenuati sui versanti freschi esposti a nord. In ogni caso è estremamente difficile trovare ormai del rinnovamento di tale specie, ossia semenzali provenienti dalla germinazione di semi.
Potrebbe esserci, quindi, un rischio di estinzione locale di questa specie?
A lungo termine senz’altro, soprattutto sulla fascia costiera più calda e secca, del Carso litoraneo, a meno che non si attuino interventi selvicolturali per restituire vigore agli individui compromessi. Sempre che non sia troppo tardi.
E il pino nero?
Anche questa specie si trova in condizioni molto precarie. Negli ultimi anni è stata oggetto di attacchi particolarmente virulenti da parte di un fungo (Sphaeropsis sapinea) che determina il disseccamento diffuso dei getti. Anche in questo caso è difficile distinguere se si tratti di parassita primario o di parassita favorito dallo stress fisiologico della specie, determinato dalle estati siccitose e dal fatto che gli impianti di pino nero sono stati effettuati soprattutto su suoli poveri e rocciosi.
E la roverella?
Questa specie presenta sintomi di cedimento fisiologico, che si manifestano soprattutto con la presenza di numerosi rami secchi, anche se in misura minore rispetto al carpino nero.
Cosa si potrebbe e dovrebbe fare quindi?
Il riscaldamento climatico e la cessazione di ogni intervento selvicolturale sono all’origine del deperimento dei boschi. Non è stato attuato il piano di conversione dei cedui in fustaia, previsto nello “Studio Naturalistico del Carso triestino e Goriziano”, prodotto da un gruppo di lavoro dell’Università di Trieste coordinato da me e pubblicato nel 1985 dalla Regione. Il piano prevedeva anche gli interventi sui boschi. Questa parte, redatta dal prof. Alberto Hoffman, era estremamente dettagliata e se fosse stata attuata fin da allora, il problema certamente non avrebbe assunto le dimensioni attuali.
Se attuato, questo piano avrebbe potuto rappresentare anche un fattore preventivo degli incendi boschivi?
Certamente: il piano prevedeva infatti la conversione dei cedui in boschi di alto fusto in due fasi: una di selezione dei polloni più robusti, dai quali si sarebbe sviluppata una fustaia transitoria da polloni selezionati e una seconda fase, che avrebbe portato ad una fustaia definitiva da seme. Ne sarebbe derivato un bosco più strutturato e con molta meno necromassa rispetto all’attuale situazione e quindi molto meno incendiabile. E’ ormai assodato, infatti, che la riduzione drastica degli incendi dipende soprattutto dalla complessità strutturale del bosco, mentre gli interventi di tipo “pompieristico” (con autobotti, elicotteri, aerei, ecc.) sono soltanto un rimedio contingente che non può risolvere il problema di fondo.
Anche il mancato diradamento selettivo del pino nero, previsto dal piano, ha contributo ad alimentare l’incendiosità dei boschi, così come lo sviluppo dei mantelli a scotano (le “foie rosse” tanto decorative), altro fattore di grande rischio, perché si tratta di specie anch’essa resinosa.
Perché non è stato attuato il piano?
Si è parlato di costi eccessivi, ma è evidente che gli interventi di tipo pompieristico e di emergenza sono fonte anch’essi di spese assai elevate, molto maggiori di quelle implicate dagli interventi colturali, che avrebbero risolto buona parte del problema in modo definitivo.
Del resto è ormai malcostume consolidato che qualora si parli di investimenti, questi non riguardino mai le “infrastrutture ecologiche” del territorio, cioè boschi, siepi, lande, zone umide, eliminazione delle infestanti, interventi di autentica rinaturazione e ripristino degli habitat. Quando sono previste misure di mitigazione e compensazione degli impatti di progetti sottoposti a VIA (valutazione di impatto ambientale) o valutazione di incidenza, quasi mai si pensa a compensazioni che riguardino le infrastrutture ecologiche.
Come mai non si parla di tutto ciò nei media e nel dibattito pubblico?
Penso che ciò dipenda dal fatto che la società attuale è immersa sempre più in un mondo virtuale ed è alienata rispetto al territorio in cui vive.
Il bosco non è ormai più fonte di beni, se non in piccola parte, per cui nel complesso è andata perduta la capacità di percepire questi segnali di sofferenza del bosco, pur manifesti e diffusi. C’è da dire inoltre che un sistema dell’informazione drogato enfatizza ed è più attratto da falsi problemi quale quello (caso esemplare di insipienza) dei colibrì di Miramare, piuttosto che dal degrado dei boschi. Se è vero, come a me pare, che il livello di civiltà di un Paese lo si giudica dallo stato dei suoi boschi, il nostro è certo assai basso.
Contro gli incendi sono state però realizzate o ampliate molte piste forestali
Le piste forestali sono un’arma a doppio taglio, con effetto boomerang: se da una parte consentono gli interventi veloci e capillari sul territorio e rappresentano anche delle barriere che rallentano la diffusione degli incendi, dall’altra parte favoriscono la penetrazione dell’uomo nell’ecosistema forestale e quindi la diffusione di comportamenti anomali e l’innesco dei fuochi. Inoltre, fungono da “corridoi ecologici negativi”, poiché consentono a numerose specie alloctone di colonizzare aree boschive.
Le specie alloctone, di cui abbiamo già parlato nell’intervista apparsa sul Konrad del mese scorso a proposito dei “ripristini”, sono quindi favorite dagli incendi?
Il passaggio del fuoco determina la distruzione della vegetazione al suolo, la scopertura dello stesso e quindi la penetrazione all’interno delle superfici forestali di specie aliene che non devono più affrontare la concorrenza delle specie spontanee. Ad esempio nei pressi di S. Giovanni in Tuba e sulle falde meridionali del monte Ermada, interessate anche dal tracciato della ferrovia, i frequenti incendi dovuti anche al passaggio dei treni, hanno determinato una diffusione preoccupante del senecione sudafricano (Senecio inaequidens).
(articolo pubblicato sul Konrad n. 172 – dicembre 2011/gennaio 2012)