Sulla scia del linguaggio intrapresa nel primo articolo di questa rubrica, oggi vorrei concentrarmi su un altro tema legato al femminismo contemporaneo: la connotazione negativa della parola Femminismo.
Mi sorprendono sempre molto le reazioni delle persone quando una donna dica di essere femminista. Tra le reazioni più disparate c’è quella che le accomuna tutte, la paura della parola stessa, spesso corredata da un velo poco trasparente di disprezzo.
Il pregiudizio infatti in questo caso è sempre dietro l’angolo: le femministe sono arrabbiatissime, aggressive, disprezzano gli uomini. Chi vorrebbe definirsi femminista se l’immagine che molti hanno di una femminista è questa?
C’è da aggiungere che per molti è facile accostare la parola femminismo a quello che viene creduto essere il suo opposto maschilismo, che però è in un certo senso è il suo contrario, ma non nel modo in cui si crede generalmente.
Certo, perché se il termine maschilismo, citando Treccani, «esprimerebbe la convinzione di una propria superiorità nei confronti delle donne sul piano intellettuale, psicologico, biologico, ecc. e intenderebbe così giustificare la posizione di privilegio da loro occupata nella società e nella storia» il termine femminismo dovrebbe significare che le donne si credono superiori agli uomini. Ma, se si vanno a vedere bene le cose, non è proprio così.
Dunque, cos’è il femminismo? Il femminismo è un movimento che è nato a metà del 1800 e che sin dai suoi albori cerca la parità di genere, visto l’evidente svantaggio da cui sono partite (e partono ancora oggi) le donne. Dopo una rapida ricerca online la prima definizione che troviamo è questa: «Storicamente, il movimento diretto a conquistare per la donna la parità dei diritti nei rapporti civili, economici, giuridici, politici e sociali rispetto all’uomo».
Pare logico concludere che il femminismo non è il contrario di maschilismo, come molti credono. Se il primo è un movimento preciso, il secondo è invece si riduce a una forma di sessismo, e al credere che il sesso maschile sia superiore al sesso “debole”.
E quindi perché il femminismo nella nostra società è visto tanto male? Perché perfino alcune donne non vogliono definirsi femministe? Perché le femministe sono viste come streghe arrabbiate in cerca di vendetta sull’intero genere maschile? Mi sono interrogata molto sull’argomento. Una delle obiezioni che viene fatta è che il termine femminismo non rende giustizia all’intento del movimento di uguaglianza di genere. Ma non esiste ancora un’altra parola più generalista che ci può rientrare in questa definizione. In più la concezione negativa del femminismo non la hanno creata le femministe, bensì chi al femminismo si è sempre opposto: sin dagli albori del movimento le donne che vi aderivano sono state dipinte come brutte, rabbiose, con la volontà di dominare gli uomini. Quando queste dicerie sono nate, negli anni ‘20 del Novecento, la donna in molti paesi era letteralmente proprietà del marito. Senza poi dimenticare le lotte degli anni Sessanta e Settanta, in cui le donne rivendicano diritti veri e propri e li ottengono (aborto, divorzio, delitto d’onore). E quindi il rivendicare l’indipendenza è normale che abbia scatenato negli uomini l’intento di screditare il movimento. Cosa ne avrebbero guadagnato gli uomini a perdere qualcosa di loro proprietà?
Per concludere, quindi, i pregiudizi al termine femminismo solo legati alla storia, più che ai concetti. E come tutti gli stereotipi sono anche questi preconcetti che si sono sedimentati nel corso degli anni nella mentalità comune in base a caratteristiche errate e discriminatorie. Sono convinta che, come per tutto, bisognerebbe andare oltre ai preconcetti, approfondire, e vincere quelle credenze che portano delle visioni negative a prescindere. Così da spogliare una semplice parola da quella carica demonizzante che ha acquisito nel tempo e capirne i veri valori.
Giorgia Chiaro