Konrad
Ambiente Vini e cibi critici

Il secolo breve dell’agricoltura contadina

Brutta annata. Piogge a profusione. Caldo che non arriva. Metereologi e storici si affannano a cercare i precedenti. Non accadeva dal 1752, dice uno. Annata così, l’ultima nel 1949. Ognuno spara il suo numero. Carlin Petrini su Repubblica ci dice di rassegnarci all’annata storta e ci invita a farcela raccontare dai contadini, per capire meglio i prezzi che avranno alterni sbalzi. Uno storico degli Annales, si dilunga a raccontarci le carestie medievali, quasi per consolarci. E questo solo per citare l’intellighenzia avanzata. Ma ha poca importanza. Chi la vede più chiaramente, sa bene che il quadro generale è dato sì da una “brutta annata” ma soprattutto dal terribilis cambiamento climatico in atto. Non un mutamento come l’era glaciale, naturale, ma causato dall’ottusità di coloro che hanno governato istituzioni ed economie in questo ultimo secolo. Eppure non se ne dice praticamente più. Si parla solo di crisi economica e la priorità è il lavoro (e ci mancherebbe, lo è), dove per lavoro si intende prevalentemente quello legato a produzioni industriali. Domanda naif: perché i pensieri semplici non trovano posto nei ragionamenti del potere? Rivoluzionare la rotta. Possiamo ancora pronunciare queste parole? Partiamo da idee semplici. Pensare ad un’agricoltura sostenibile e ridare centralità ad una terra viva è una duplice ed irrinunciabile priorità. Mette al riparo il futuro dei nostri figli salvaguardando il poco (ormai è poco!) che resta di suolo libero e verde, e offre nuove opportunità di lavoro. Come? Nel recupero, nella riconversione dei molti siti inquinati e distrutti, nella cura della terra, nella lavorazione, nella trasformazione ed offerta dei suoi prodotti. Inoltre salvaguarda la salute di tutti coloro che consumano cibo. Cose che sulle pagine di Konrad ha detto e dice il prof. Livio Poldini con voce massimamente autorevole. E sembra anche semplice. Semplicissimo. In realtà semplice non è, ma nessuno ha mai detto che la politica (che non è solo amministrazione pubblica) sia un compito automatico e compilativo. Tradurre le idee innovative in azioni concrete. Ecco. Sennò a cosa serve la politica? Invece, di vera innovazione non c’è traccia. Nessuno ha il coraggio di tirare una riga, meno che mai  l’agonizzante sinistra maggioritaria. Gratta gratta, spopola sempre il solito modello industriale. Avete presente Frank la mietitrebbia del film di animazione Cars? Ha terrorizzato mio figlio di 4 anni per mesi. Perché una mietitrebbia su un campo di grano è in effetti, un mostro. L’enorme Frank, occhi di bragia nella notte agricola del land nordamericano,  simboleggia bene l’agricoltura dei grandi appezzamenti (il nuovo latifondo), i macchinari elefantiaci sui campi, i pesticidi, i fitofarmaci, le irrigazioni massive, le produzioni omologate. Per tacere degli OGM. Se ci penso, Frank fa paura anche a me!

 

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Nessuno vuol tornare all’età della pietra. Si parla di modelli, non di tecnologie da rigettare in toto. La Comunità Europea va da anni in direzione “ostinata e contraria” al buon senso. E sostiene le grandi produzioni e le multinazionali agroalimentari. Le colture OGM approvate sono ormai una quindicina. Salvo poi destinare manciate di risorse a piccole produzioni di nicchia, a produzione, “tipiche”, termine fastidioso ed ormai svuotato da ogni senso. Quasi come “italiane”. E salvo poi chiedere ai piccoli produttori, chessoio, di grano, farina e pane (mosche bianche che gestiscono l’intera filiera) di seguire le stesse norme sanitarie che applicano aziende come Barilla. Con una certa differenza nella sostenibilità del costo, naturalmente. Chi, tra i piccoli, si mette in riga, deve poi far ricadere la spesa su chi acquisterà il prodotto. E così quel pane bio del contadino costerà, ad esempio, 9 euro al chilo. Laddove il prezzo del tipico non lievita in origine, ci pensano i commercianti delle crescenti boutique del prodotto tipico ad incrementare il prezzo finale. E sarà pure un Presidio Slow Food, ma il pane a nove euro al chilo è un latrocinio! È solo un esempio a caso, per dirci che da una parte abbiamo il cibo junk-agricolo-industriale contaminato e dall’altra siamo alla frontiera del radical chic food. E di questo binomio siamo davvero stufi. Vogliamo uscirne. Come dimostrano le esperienze di orti comunitari, urbani, periurbani e campagnoli. Come dimostrano gli acquisti collettivi. Esperienze gestite completamente dal basso, che ci insegnano e praticano l’unica via di salvezza: la filiera corta. Anzi cortissima, stringata, a trasparenza totale, senza marchi ed egide, quella che solo il rapporto diretto con il produttore – e con la terra- può garantire. Non il prodotto a km zero, ma la filiera a km zero.

Simonetta Lorigliola

 

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