Konrad
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Blaise Cendrars, La mano mozza

Su questo lirico, vivace ed eclettico autore avevo già fatto una recensione anni fa, sempre sul Konrad e non posso esimermi dal farne un’altra per un altro suo libro.
L’orrore della guerra è sempre attuale perché non v’è luogo nel globo dove essa non compaia, più o meno frequentemente. È solo questione di tempo: l’inevitabilità è del tutto umana. Il racconto di una guerra, quindi, non può non avere una ripercussione sul presente umano, vicino o lontano che sia.
La mano mozza di Blaise Cendrars è un libro di memorie che racconta l’esperienza dell’autore nella Prima guerra mondiale (questa puttanaccia di guerra; fabbrica della morte; una sudiceria); ma è anche molto di più: non un resoconto, bensì una descrizione della vita in trincea, con analisi comportamentali e psicologiche folgoranti e un linguaggio sbalorditivo, penetrante (Cendrars è poeta anche in prosa e la traduzione di Caproni lo conferma).
L’autore era partito per la guerra come volontario, entrando come legionario per combattere l’invasore tedesco, ma venne nominato subito soldato scelto, facente funzione di caposquadra, cosa che gli permise una panoramica più ampia. Sopravvisse alla guerra, perdendo compagni e una mano.
Certo, si commetterebbe errore a ridurre questo libro di memorie a una mera cronaca autobiografica ma sarebbe anche ingiustizia non far emergere quelle dinamiche che, per cinismo, sono obbligato a considerare eterne. La seguente frase, per esempio, potrebbe essere stata detta nel 1915 in Francia da Cendrars oppure un giorno fa in Ucraina o in Afghanistan o in Etiopia o in una delle altre 56 guerre contemporanee:

Le pallottole ci fischiavano all’orecchio e facevano saltare i calcinacci dalle facciate già crivellate delle case.

L’analisi spesso spicciola ma radiografica, reale, dell’accadere umano in guerra che ritroviamo descritta nel libro è un affondo speciale e decisamente raro nei libri che parlano di guerra (perdevo coscienza a furia di prender coscienza del pericolo) ed è espressa molte volte con profondo lirismo e profonda sincerità. In questo senso, degno di nota, è il fatto che

avevo sottoscritto la ferma con falso nome inglese. Nel reggimento, rimasi uno sconosciuto. Nessuno sapeva che ero scrittore. E nemmeno oggi (1946) faccio parte degli Scrittori ex combattenti. Al fronte, ero soldato. Ho sparato delle fucilate. Non ho scritto, questo perché non m’appago di parole. M’ero arruolato, e come parecchie altre volte nella vita, ero pronto a portare sino in fondo il mio atto. Ma non sapevo che la Legione m’avrebbe fatto bere quel so calice sino alla feccia, e che tale feccia m’avrebbe ubriacato, e che provando una gioia cinica a degradarmi e ad avvilirmi […] avrei finito con l’affrancarmi del tutto, per acquistare intera la mia libertà. Essere. Essere un uomo. E scoprire la solitudine, per fondere, alchemicamente, due parallele in un cerchio: E il mestiere dell’uomo d’armi è cosa orribile e piena di cicatrici, come la poesia. O hai i numeri, o non li hai. Non si può barare, perché nulla logora maggiormente l’anima e maggiormente segna di stigmate il volto dell’uomo (e in segreto il cuore), e nulla è più vano, dell’uccidere, del dover sempre ricominciare da capoEvviva! C’est la vie…

Dinamiche concrete e dettagliate di una vita in guerra con affreschi disincantati dipinti da una mente passionale e acuta che con la propria onestà condivide – come già detto, poeticamente – ciò che le è accaduto, dispiegando un gradito e sottinteso antimilitarismo che ogni tanto diviene manifesto (Grazie, signor capitano, ma… ma io non ho la vocazione militare, scusatemi; io ai galloni non ci tengo, signor maresciallo), risultato anche di un’anarchia sincera e non elaborata, soprattutto nei confronti del potere.
Ma la consapevolezza che la guerra per lui sia un’inevitabile arma di difesa non elimina la consapevolezza del suo orrore:

tutto ciò era privo di gloria; m’affretto a dire che la guerra non è per niente bella e che, specie per quanto ne può vedere uno che v’è immischiato dentro come semplice esecutore – uomo sperduto nei ranghi, matricola fra milioni d’altre – è fin troppo stupida e non sembra obbedire a nessun piano d’insieme ma al caso. Alla formula marcia o crepa si può aggiungere quest’altro assioma: buttati come la va la va! Ed è pur così, ci si butta, si va, si cade, si crepa, ci si rialza, si marcia e si ricomincia.

Lascio ai futuri e ritardatari lettori che non hanno ancora letto il libro le descrizioni in cui la carne umana e il suo sangue colano, schizzano, volano e inorridiscono tutto, soldati e paesaggio, zittendo crudelmente ogni suono, e gli tralascio anche i molti scavi esistenziali e i molti passi in cui il lirismo scoppia, proprio come le bombe che descrive, con un’epicità all’interno di un’antiepicità… Lascio insomma, com’è giusto, quasi tutti al lettore ma devo prima avvertirlo che, come un basso continuo, vi troverà dell’ironia, che alle volte muterà in comicità, ma una comicità naturale, senza intenzione di risata, anzi: è la vita stessa e la vita in guerra in particolare, a essere comica.

La memoria, che cimitero! Vicine o lontane, le tombe si moltiplicano, e in tempi come i nostri i morti giocano a cavallina e riappariscono, piombando dal cielo!

 

Riccardo Redivo

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Riferimenti bibliografici
• Blaise Cendrars, La mano mozza, intr. Giovanni Bogliolo, trad. Giorgio caproni, Guanda, Narratori della Fenice, pp. 299, 2000
• La recensione all’altro libro dell’autore, Ho ucciso. Ho sanguinato si trova sul K218 luglio-agosto 2016 a p. 19 con il titolo “Ho ucciso. Ho sanguinato. La prima guerra mondiale di Blaise Cendrars” e si può sfogliare qui.
• Per le 59 guerre contemporanee: acleddata.com/#/dashboard

In copertina: Ritratto Blaise Cendrars – Elisa miele

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