Cari lettori, eccoci dunque al nostro ultimo incontro.
Dopo aver viaggiato assieme a ritroso nel tempo e nello spazio delle arti marziali orientali vorrei soffermarmi un aspetto dell’essere umano che è universale e chiaramente deducibile dal percorso che abbiamo effettuato: l’aggressività è insita nell’uomo così come in ogni animale.
In natura questa serve alla sopravvivenza dell’individuo e quindi della specie: se sei nella tundra invernale e non uccidi per mangiare o non ti difendi dai predatori sei destinato a morire.
L’agressività diventa un problema quando viene orientata verso gli individui dello stesso gruppo, diviene violenza ed è deprecata da ogni forma di pensiero e società.
A metà fra le due c’è quella che contrappone individui della stessa specie appartenenti a gruppi diversi che chiamiamo guerra.
Taluni la considerano un male necessario o comunque ineliminabile, ma per i più è qualcosa da cancellare dalla faccia della terra, ma com’è possibile eliminare qualcosa che parte dall’interno dell’essere umano, dai nostri naturali e più profondi meccanismi ? L’educazione non può cancellare milioni di anni di evoluzione.
Per cercare di risolvere questo dilemma sono intervenute filosofie e religioni, almeno per cercare di mitigarne i nefasti effetti.
In India abbiamo visto il Mahabharata, testo sacro per gli induisti (che contiene anche i principi filosofici dello Yoga) dove troviamo i “consigli” su come il guerriero dovrebbe affrontare la propria condizione; all’interno dell’induismo si è sviluppato il buddhismo che (soprattutto attraverso la sua corrente Mahayana) ha generato religioni senza divinità che hanno attraversato il Tibet raggiungendo la Cina (dove si sono incontrate con il Taoismo) sino a raggiungere il Giappone scintoista, sempre aiutando il combattente nella sua componente spirituale.
Ma in occidente non siamo da meno.
Il Dio dell’antico testamento è il “Dio degli eserciti”, nell’Islam c’é la Jihad, la guerra sacra, e nemmeno della storia del Cristianesimo è possibile vantarsi: tra crociate, inquisizioni, conversioni forzate a furia di torture e mutilazioni … forse una delle poche cose positive è stata la spiritualita del cavaliere medioevale, un po’ di luce “cristiana” nella barbarie dei secoli bui.
Risulta quindi evidente che per non permettere all’aggressività (presente sempre ed ovunque) di diventare violenza è meglio incanalarla in direzioni diverse, costruttive, a vantaggio dell’individuo e quindi della società; per questo fine le Arti Marziali possono essere una grande risorsa ma permettono, a differenza di altri percorsi individuali, non di sopprimere qualcosa che è in noi ma di trasformare il potenziale veleno in una medicina.
Percorrere questa strada non vuole dire soltanto sfogare l’aggressività ma iniziare a guardarsi dentro per scoprire se stessi ed acquisire consapevolezza, di se e degli altri.
Pensate che, per quanto possa sembrare strano, c’é un perfetto parallelismo tecnico tra l’artista marziale ed il musicista: gli occhi di entrambi guardano chi l’avversario chi lo spartito (ed in prospettiva il direttore dell’orchestra); chi non legge si affida alla memoria, riferimento interiore dell’esperienza di entrambe le tipologie di artista; le orecchie scandagliano l’ambiente, il musicista per percepire l’insieme della musica e le reazioni del pubblico, il combattente (non certamente quello sportivo) per verificare che non arrivino alle sue spalle altri contendenti; attraverso la propriocezione (lo sguardo interiore) entrambi tengono sotto controllo gli strumenti della loro arte (chi il violino, chi la spada) o, più semplicemente, i propri gesti.
Però il musicista non troverà aiuto per superare gli ostacoli delle proprie paure e della propria coscienza.