Cresce il Patto della farina del Friuli orientale
di Luca Meneghesso
Torno, dopo quasi due anni, al Mulino Tuzzi a Trussio per incontrare Enrico, mugnaio e street artist, e chiedergli come procede il progetto del Patto della farina del Friuli orientale (vedi La farina di che sacco? Konrad 212, dicembre 2015 – gennaio 2016).
Piove a dirotto. Il Collio ipersfruttato dalla invadente presenza quasi monocolturale della redditizia vite subisce le ingiurie del dissesto idrogeologico. Il fiume Judrio minaccia il mulino e le zone circostanti. Anche la roggia, se non si procederà allo sghiaiamento come promesso, da prezioso strumento di regolazione delle acque potrebbe diventare un pericolo. Al mulino, che dal 1888 appartiene ai Tuzzi, la famiglia di Enrico, si macinano tutti i cereali del Patto della farina del Friuli orientale, una filiera corta che coinvolge produttori, trasformatori e consumatori.
Al di là della roggia, che fino al 1991 faceva girare gli ingranaggi del mulino, si trovano le rovine del primo mulino trecentesco. Qui si è fatta la storia dell’agricoltura e Adriano Tuzzi – padre di Enrico – ha raccolto documenti, attrezzi, libri e altro in un’ala del mulino adibita a museo. Spicca, utilizzato fino a poco tempo fa, un vecchio laminatoio vale a dire uno strumento con una coppia di cilindri di ghisa e acciaio che, girando uno contro l’altro, determinano la macinazione del chicco di frumento. Le scanalature sul cilindro compiono un lavoro di rottura e abrasione che imita il lavoro fatto dalla pietra. Notevole anche una serie di sacchi di juta destinati a contenere le farine, alcuni con le insegne del Piano Marshall, altri utilizzati durante l’occupazione nazista o altri ancora prodotti nella vicina Jugoslavia socialista.
A Trussio ci sono due mulini: uno del 1925, meccanico, utilizzato per il mais e l’altro del 1961, pneumatico, per il frumento. Entrambi sono laminatoi, ma del resto la maggior parte delle pietre usate nelle mole sono conglomerati con una resa non migliore.
Quando nel 2014 è nato il Patto vi aderivano 80 nuclei famigliari che si sono fatti carico di una parte del rischio d’impresa comunicando anticipatamente la quantità di farina annuale che avrebbero acquistato partecipando alle assemblee con diritto al voto su tutto l’aspetto decisionale, dalla coltivazione alla produzione. Ora le famiglie sono 180 coinvolte singolaremente oppure tramite gruppi di acquisto, comitati di quartiere o Botteghe del mondo, nel Friuli orientale, nel goriziano, a Udine, sul Carso e a Trieste.
Fondamentale il ruolo del comitato di quartiere di Straccis, sobborgo della città di Gorizia. È qui che tre anni fa ci sono stati gli incontri fondativi di questa esperienza e oggi qui resta il cuore del progetto che ospita le riunioni, le assemblee e i corsi di formazione destinati ai consumatori: nel Patto il consumatore non è soggetto passivo ma partecipa da protagonista e le modalità di gestione della filiera vengono definite durante assemblee con gli aderenti, in cui vengono presentati e analizzati in modo trasparente i costi di produzione, i punti critici e le richieste di tutti. È un processo complesso, forse, ma da questa modalità di gestione orizzontale e assembleare scaturisce una filiera con connotazione territoriale in cui il consumatore prende coscienza della produzione attraverso un contatto continuo, creando un rapporto di fiducia che si basa sullo scambio sociale e sulla conoscenza personale. Non più sul marchio.
La crescita di questo importante progetto si misura anche dai quintali macinati annualmente, passati dai 80 iniziali ai 200 odierni. Il grano viene pagato ai contadini 60 euro al quintale, contro i 18 euro di media della quotazione per il frumento convenzionale ed i 38 euro per il biologico. Questo permette di sostenere la microeconomia di un territorio, attribuendo il giusto valore al prodotto e al lavoro delle persone coinvolte, pur mantenendo l’acquisto accessibile a tutti. L’impatto di questo progetto è evidente calcolando gli ettari coltivati con grani antichi e biologici (certificati e non) passati da 3 a 10. Il Patto per ora coinvolge solo il frumento, ma vengono prodotte a Trussio anche farine di mais e farro, forniti in gran parte dagli agricoltori interessati al progetto. Per quanto riguarda il Patto, il frumento utilizzato è di varietà antiche come il Verna e l’Autonomia B, a bassissimo contenuto di glutine (e bassa intolleranza), più digeribili e organoletticamente migliori.
E forse sono proprio le varietà antiche il futuro della produzione cerealicole non certo gli OGM in ogni caso. Produciamo già cereali sufficienti a sfamare 9 miliardi di persone, ciononostante ci sono 2 miliardi di persone denutrite o malnutrite. Il problema non è la produzione, ma l’accessibilità. Senza considerare le implicazioni dei cibi OGM sulla salute su cui si sa ancora poco, dobbiamo pensare anche al fatto che una pianta modificata geneticamente può resistere ad una malattia, ma non si tiene conto delle normali e naturali variazioni e modificazioni dell’ambiente circostante, alle quali queste varietà non si adattano, a differenza di quelle autoctone, selezionatesi in loco attraverso una selezione naturale ed antropica.
È grazie a un sistema di garanzia partecipata che il Patto sta crescendo. A certificare la qualità del prodotto non è un ente terzo ma un territorio. Questo permette di uscire dalle dinamiche, talvolta poco chiare, degli enti certificatori e di farla finita con un concetto di bio burocratico che è uguale ovunque e che appiattisce le produzioni di cui non può riconoscere le specificità.
Il territorio il principio cardine del Patto che si sta allargando alla zootecnia e all’apicoltura con l’intento di creare una rete regionale con principi fondamentali condivisi e con ampie autonomie delle realtà locali.
L’importanza del Patto è stata capita subito da servizi di ristorazione d’eccellenza e pizzerie e ora si sta diffondendo nella piccola distribuzione come supermercati a gestione familiare o il nuovo punto Biobenessere di via III Armata a Gorizia. Nel circuito delle Scuole Waldorf la farina del Patto è stata scelta a Borgnano e in Slovenia a Vrtojba/Vertoiba e Šempeter pri Gorici/San Pietro di Gorizia.
Le più grosse resistenze si trovano tra i panificatori. Forse per il costo e per le difficoltà di lavorazione di questi grani che mal si adattano alla produzione non artigianale.
Fa eccezione il Panificio Iordan di Capriva citato persino sulla globalizzata e perfomativa guida Lonely Planet. Appena entrato noto subito un murales del poliedrico artista (che è anche fornaio) Guido Carrara detto il Quisco. Ci accoglie Matteo panettiere giovane, coraggioso e con la passione. Lui, dopo aver conosciuto le farine macinate a Trussio grazie al Gruppo di Acquisto Solidale di Gorizia, partecipa al Patto. Matteo non ha avuto i dubbi di altri panificatori più maturi di lui. È stata una scelta sociale e politica, quella del Panificio Iordan, ma che ripaga permettendo di ottenere un pane diverso da quello che si può trovare quasi ovunque. Un pane “difficile” da fare, forse, ma un prodotto vivo. Iordan non usa solo farine del Patto. Si fornisce anche a Reana del Rojale al mulino Nadalutti, per diversificare la propria offerta. Da fine inverno scorso il lievito madre usato per tutti i prodotti del forno è “contaminato” – e la cosa non ha solo un valore simbolico – con la farina del Patto.
Slegarsi dal mercato globale creandone uno territoriale, indipendente e libero: questo è il lavoro fatto dal Patto della farina che, al terzo anno, ha ormai dimostrato che un’altra economia è possibile, con l’aiuto di tutti, con l’aiuto del territorio. Non resta da fare altro che sostenerlo.