Ho incontrato Franco Loi nel gennaio di quest’anno per una mia ricerca sulla messa in musica della poesia. Loi è un poeta che usa il dialetto (un milanese adattato alla propria sonorità) come una sorgiva, fluido, spontaneo, naturale. Troppo spazio andrebbe per presentare i suoi scritti e la sua umanità, per cui credo sia meglio aprire la parziale trascrizione del nostro incontro (in cui abbiamo affrontato moltissimi argomenti: dalla Merini alla Gita, da Lenin ai Stormy Six, da Bach a Huxley, da Duino al potere) con una sua breve poesia. Il resto bisogna farlo da sé e leggerlo, perché lo merita.
Nel curr del prâ parevan che ridèvum
forsi vusàvum, forsi sérum trâ
cume se trann i rùnden ne la sera
ch’je porta l’aria e lut în ’me ciamâ.

Nel correre del prato pareva che si ridesse
forse gridavamo, forse eravamo gettati
come si lanciano le rondini della sera
che l’aria li sostiene e loro sono come chiamate.
Ho cominciato tardi a scrivere poesie […] In italiano ne avevo scritta qualcuna, di cui mi ero anche dimenticato, invece le ho scritte proprio nel periodo della sua età [32 anni]. Di là c’ho un pacchetto così di queste cose in italiano.
Interessante.
Però, quando avevo 35 anni, mi è capitato tra le mani il Belli, e questo mi ha affascinato, mi è piaciuto tanto. Quel poco che avevo letto del Porta sì, mi piaceva, ma non tantissimo […] E nello stesso tempo ho detto, nel settembre del ’65, siccome m’è venuta voglia di scrivere della guerra, del periodo del lavoro in ferrovia, ho detto beh, di questa gente che ho conosciuto, non posso scrivere in italiano, perché sono persone che parlavano in dialetto, anche se non tutte lo parlavano, però vivevano dentro la mia città […] É la luce del colore rispetto a un pittore, tant’è vero che ho scritto anche in genovese, che ho sentito quando ero bambino, perché, volendo parlare del periodo della prima infanzia, ho voluto scrivere in genovese, e tutti naturalmente mi han detto che non è vero genovese; ma anche il milanese che scrivo io non è il milanese delle scuole. Loro credono che, una volta che Porta, e poi il Tessa, ha scritto, allora bisogna scrivere come lui.
Guai, guai! Sennò muore la lingua.
[…] Proprio la funzione della poesia è andata perduta, perché la funzione dell’arte tutta, compresa la poesia, è quella di far sentire l’assoluto, come dice Hölderlin, perché non ci si arriva con la razionalità. Con la razionalità si arriva a Hegel, ma Hölderlin diceva che l’assoluto non è razionalizzabile mentre invece l’artista te lo fa sentire, l’assoluto. Il suono stesso è fondamentale. Io vedo le mie poesie: se le leggo in italiano è diverso. Io le leggo sempre prima in italiano, perché noi siamo abituati a questo, l’abbiamo imparato a scuola.
E poi è arrivata la televisione che ha livellato…
Che ha livellato tutto. Allora, il dire è dire profondo, è un dire il nostro rapporto con se stessi, con la vita, con le cose, proprio come insorge dentro di noi. Quando Giovanni dice In principio era il verbo, ecco, il verbo ha anche un altro significato, ma la parola proprio che insorge dentro di noi: è quello che conta. Non è la parola chiacchiera, è la parola che insorge dentro di noi e che ha un suono. Tanto è vero che all’italiano, che finisce sempre per vocale ed è vocalico proprio tutto, cosa succede? Che, bravissimo Dante, che ha sentito proprio, ha ritmato le parole Nel mezzo del cammin di nostra vita/mi ritrovai per una selva oscura: le “a” sono fondamentali tutte, tutte le vocali sono fondamentali. Invece nei dialetti, come il mio, nel milanese, nel genovese, le parole finiscono spesso per consonanti e quindi, se io dico “mi piacerebbe”, anche se dico “mi piacerebbe” [detto più lentamente], rimane qualcosa sempre di mentale, mentre invece in milanese si dice o me piaseria o me piasariss, allora, a seconda del fatto che incomincia la parola dopo per vocale o per consonante, si usa una cosa o l’altra. E questo è importantissimo per l’armonia musicale, sonora del verso.
Certo, sono note, in questo senso. Difatti mi ricordo che anche lei usa diversi sensi, diverse parole per dire piangere, piange…
[…] La lingua poi l’ha imparata il popolo, cioè non è mica venuta fuori dalla scuola, eh? La scuola arriva dopo, riordina, fa tutte le sue elucubrazioni razionali e crede che allora bisogna rispettarle. Invece non è vero! È proprio la morte della poesia quella, è la morte dell’arte. […]
Tuttavia, quello servirebbe per la tecnica, giusto un attimino, però…
Eh sì. Eh sì. […] Noi occidentali abbiamo la supremazia della mente. La mente diventa padrona di noi, non ce ne rendiamo conto neanche. […]
Comunque in questo lavoro occorre, come sempre poi in tutte le cose dell’arte, c’è un principio, ed è l’amore: se non c’è questo non esiste la
poesia e neanche la musica.
Potrei dire non esiste niente…
Sì, appunto, non esiste neanche la società, è vero, è vero. […] La questione è che quando la gente lavorava e faceva fatica, e magari aveva solo il necessario, e a volte neanche quello, spesso neanche quello, era più gioiosa e più, nello stesso tempo, più attenta, più amorosa.
Come se sapesse il valore del tempo e della vita.
Questo. […] quello che è anche molto importante è fare con le mani. Io mi ricordo, lo ripeto sempre perché è straordinario, un operaio mi disse una volta, in milanese: “Vedi, io lavoro” (Mi son lì che lavori) “ma il mio compagno non fa niente, tutto il giorno, poi la sera fa gli straordinari perché deve finire il lavoro che gli è stato assegnato e però, sai cosa ti dico? Lui è sempre rabbioso, e scontento, invece io amo il mio lavoro” (mi me piaz el me lavurà) “e allora impari intanta”, questo è geniale, “intanto impari qualcosa del fer e un qualcosa de mi”, “qualcosa del ferro e qualcosa di me”, e questa è un’osservazione forte.
Saggezza.
Perché è vero, se tu lavori con le mani, devi stare attento, alla cosa che tocchi.
E poi prima di eliminarla c’hai rispetto, la mantieni, non è mica consumismo.
Eh sì, eh sì. E questo è importante nello stesso tempo per l’attenzione: “dove ho sbagliato? Come mai mi son distratto, perché?” E l’uomo si conosce. Invece adesso schiacciano un bottone e va la macchina, devono solo stare attenti che non si inceppi: è terribile […] L’uomo subisce la macchina. In più, si allontana dalle cose, dalla vita, non sa più che cosa sia la materia, di cosa sta parlando […] Ha ragione Dante [e declama Inf. III, 1-7]: il male, l’inferno, è un fatto spirituale, non è un fatto fisiologico, quindi tutte le balle attorno al peccato di Adamo, Eva. Il peccato di Adamo è un peccato di conoscenza: è avere preteso di, come dire, senza aver raggiunto la consapevolezza, usare i risultati della cultura.
Lo paragono a Icaro, in questo caso.
Eh, sì. Eh, sì.
O sennò Orfeo quando si gira.
Sì. Sì gira, certo. Però Orfeo è già, ecco, meno, perché Orfeo si gira ma poi va…
Ma perché si gira? Per me si gira per curiosità, per voglia di sapere.
Voglia di sapere. Sì, sì. È vero, sì, non solo la voglia di sapere, ma la pretesa che con la mente riesci a sapere. È il chiudere dentro nella razionalità la vita della natura, la vita delle cose.
L’impossibile, l’irrazionale.
Dio.
Riccardo Redivo
[Da Konrad n° 171, novembre 2011]