«Scusate se ancora non riesco a essere più semplice».
Conversazioni contadine è un libro molto potente e apparentemente semplice che ha avuto varie edizioni (Einaudi, 1962; Mondadori, 1966; il Saggiatore, 2014, che lo ha ancora in commercio) ed è uno di quei libri che dovrebbero essere consigliati a scuola e reso imprescindibile a chi si ritrovi a fare politica.
Danilo Dolci (per chi ancora non lo conoscesse, consiglio di leggersi questa biografia) fa quello che fanno pochi, pochissimi: ascolta le persone, non giudica ma cerca, esplora, chiede, con piccole e rapide parole o con piccoli e veloci riassunti di quanto detto in conversazione per trovare una via che accomuni tutti, il bene di tutti.
Dolci è nato dalle nostre parti (Sežana) ed è finito dopo varie lotte di impegno umanitario e civile («sono stato in galera anch’io») nel quartiere di Spine Sante, a Partinico, in Sicilia, dove, nel 1961-1962, ha tenuto delle riunioni-conversazioni (di 2 ore circa, ogni giovedì sera) che sono state registrate e travasate in questo testo, la cui unica difficoltà, seppur minima, è che i partecipanti parlano un italiano che è un dialetto italianizzato: la minima difficoltà però è a vantaggio di una genuinità rara e profonda. Ogni riunione ha un tema proposto da Dolci (richiesta di un certificato falso; piani di sviluppo; è giusto ammazzare?; il razzo sulla luna; è giusto battezzare un bambino?; qualità di un uomo e di una donna per essere veri; cosa tenere e sviluppare e cosa cambiare nella vita di Partinico e come farlo; andare in guerra?: che cos’è vivere e che cos’è morire?).
Dolci non giudica e non cerca nemmeno di indirizzare, di manipolare i partinicesi (partinicoti) ma cerca ogni volta di tirare le somme e trovare qualcosa che migliori il dialogo per lo stare comune. A libro chiuso e pensando a quanto ha fatto e a come l’ha fatto viene facile scomodare Socrate e il suo metodo: quello di Dolci è meno diretto e più aperto rispetto al filosofo greco, in cui l’obiettivo non è la ricerca della verità assoluta ma della verità per il bene collettivo, quella che permette di far stare bene ogni persona. Con somma gioia, documentandomi per questo articolo, ho scoperto che in effetti il suo metodo si richiama proprio a questo filosofo: maieutica reciproca (altrove si parla anche di autoanalisi popolare).
[…] quando siamo di fronte a un problema difficile, se ci mettiamo insieme, tutta la gente, a pensare, la gente tutta insieme se cerca trova la verità. In queste riunioni vorrei soprattutto rispettare uno a uno, perché son sicuro che, quando avremo finito la conversazione tutti avremo un’idea più giusta.
Certo, è difficile. Siamo qua per insegnarci l’uno con l’altro, non è che veniamo qua per scherzare, veniamo qua per insegnarci cose difficili che prima non sapevamo e poi impariamo, insieme.
Nel caso mio però io la cerco la strada con gli altri; non è che io ce l’abbia la verità impacchettata in tasca da insegnarla agli altri.
La mia parola è un tentativo, come al solito in queste riunioni, di trovare qualche punto in comune.
Bene, ciascuno dice come pensa, e tutti insieme cerchiamo la verità.
Un momento. Soltanto se noi sentiamo l’opinione di tutti possiamo formarci una verità, come dire?, più avanzata, più chiara nella testa.
È per questo che Dolci molto spesso inizia i suoi brevi interventi con un «Siamo d’accordo» che alle volte è una domanda e alle volte la constatazione di quanto è stato detto e da lui appunto riassunto, per mettere in evidenza i (seppur piccoli) progressi raggiunti. E quando si parla di argomenti sensibilmente politici non c’è niente in lui a essere politicizzato, o molto poco. Per esempio, quando parla di sciopero lo fa in modo pacato, senza portare sindacati, lotte o esempi al suo mulino, ma così:
Siamo d’accordo, come è stato accennato, che è importante usare la verità come strumento di lotta? Diceva qualcuno, «fare le inchieste», se non mi sbaglio Ciccio e Piero dicevano «capire le cose come sono»: per essere più e meglio forti; per sciogliere i nodi quando ci sono, fin che è possibile, invece che spaccarli, invece che tagliarli: se si taglia un nodo poi la corda non serve più, e quando invece di essere corda sono generazioni di persone è peggio. Siamo d’accordo su questo? È un altro punto su cui siamo d’accordo?
Un altro punto. Siamo d’accordo che è importante mettersi dalla parte di chi più soffre, dalla parte di chi è sotto, perché questi hanno fame di vita, perché questi è più facile abbiano la voglia e anche la forza di cambiare il mondo? Siamo tutti d’accordo che bisogna promuovere l’unità di quelli che hanno interesse a cambiare? Anche in questo siamo d’accordo… Accidenti, allora non è che tutti quanti siamo in disaccordo.
La dialettica delle riunioni è semplice ma bisogna essere preparati e sicuri di quello che si cerca per poterla possedere, non è solo aver pazienza e far parlare le classi disagiate di quel tempo – per usare un eufemismo – ma significa ragionare in modo che il dialogo porti a un’opinione, a un sentire comune, vero e il più possibile condiviso. Questa è un’opera sociale e, dopo tanti anni (70!), anche antropologica perché mostra chiaramente un’Italia, una parte d’Italia, molto lontana da oggi e il confronto con il linguaggio, il sapere e il modo di ragionare dice moltissimo di quei tempi e, va da sé, anche dei nostri.
Fondamentale per capire il libro è la Premessa (datata marzo 1962) che Danilo Dolci pone all’inizio del libro: è una riflessione metodologica su come si sono svolte le conversazioni e quali siano stati gli obiettivi della ricerca. Verso la fine scrive:
Queste riunioni nel loro piccolo sono la figura, il campione seppure limitato, di come vorremmo operare su scala più vasta: di villaggio, zona, subregione: contestualizzando al massimo la ricerca di ciascuno, di ciascun gruppo, e poi la ricerca e l’opera comune, sempre meglio e sempre più di tutti, dal basso.
Certo, non voglio dire che il mettere insieme alla base la gente a pensare, sia pure anche per operare, sia sufficiente di per sé a provocare uno sviluppo armonico. […]
E dopo aver detto che non è sufficiente il cercare insieme dal basso, non si può non sottolineare una volta di più come ovunque sia indispensabile.
A conferma di ciò, in chiusura dell’ultima riunione (il penultimo intervento di Dolci): Vorrei fare una domanda a tutti: vi è sembrato che abbiamo perso tempo?
Riccardo Redivo