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Le sporte della spesa
Dalla plastica classica al biodegradabile e al compostabile in un ginepraio di norme europee, che oltretutto l’Italia non ha applicato bene. Per esempio siamo l’unico paese in cui i sacchetti sono a pagamento.
di Lino Santoro
Le sporte di plastica hanno dominato le cronache nei primi giorni di gennaio.
Anche in questo caso si è contraddistinto negativamente il modo di legiferare in Italia. Il 3 agosto 2017 esce la legge 123, conversione del dl 91/2017 riguardante le disposizioni urgenti per la crescita economica nel Mezzogiorno.
Cosa c’entra con le sporte? Nella 123 viene inserito l’art. 9-bis che introduce, per evitare la procedura d’infrazione 2017/012, una serie di modifiche al dlg 152/ 206 (testo unico sull’ambiente) in attuazione della direttiva europea 2015/720 riguardante la riduzione dell’utilizzo di borse di plastica in materiale leggero.
La logica della direttiva è importante: l’ambiente è invaso dalla plastica (nel mondo annualmente vengono prodotte più di 150 milioni di ton di polimeri di sintesi) e soprattutto ne risente l’ecosistema marino.
I sacchetti ingeriti da testuggini, delfini… ne causano la morte.
La disgregazione chimico-fisica riempie il mare di microplastiche, contaminando la catena alimentare.
Secondo la 2015/720 le sporte con uno spessore inferiore a 50 micron (borse in materiale leggero) sono facilmente disperse nell’ambiente. Per cui gli stati membri devono fornire dati accurati sul loro utilizzo per valutare i progressi compiuti nella loro riduzione, e suggerisce alcune misure per disincentivarne l’uso come la fissazione di un prezzo, imposte e restrizioni alla commercializzazione, ma si afferma che è possibile esonerare da queste misure le borse in materiale ultraleggero (spessore inferiore a 15 micron) biodegradabili e compostabili da usare per i prodotti alimentari sfusi. Disposizioni da attuare entro il 27 novembre 2016, data non rispettata dall’Italia.
L’art. 9-bis della 123 vieta la commercializzazione delle borse in plastica di materiale leggero e fissa i criteri che devono avere le sporte in commercio: ovvero quelle riutilizzabili con maniglia interna o esterna e con parete di spessore variabile da 60 a 200 micron e contenenti una percentuale di plastica riciclabile da 10 a 30% a seconda della diversa tipologia.
Dal 1 gennaio 2018 sono escluse dal commercio le borse ultraleggere tranne quelle corrispondenti alle caratteristiche della norma UNI EN 13432 su biodegradabilità e compostabilità, ma contrariamente alla direttiva EU, sono a pagamento.
Secondo la norma 13432 biodegradabile è un materiale che i microrganismi (batteri, miceti, alghe) sono in grado di eliminare attaccandolo e metabolizzandolo completamente; compostabile è un materiale che subisce questo processo in tempi ben definiti: disgregazione completa dopo 3 mesi e scomparsa e umificazione almeno del 90% in 6 mesi. Il contenuto minimo di materia rinnovabile nei sacchetti ultraleggeri deve essere del 40%, che diventerà del 50% dal 1 gennaio 2020, e del 60% dal 1 gennaio 2021. Il restante è composto da polimeri di origine chimica o biochimica. Si tratta di poli caprolattoni (PCL), poli vinilalcool (PVA), poli lattidi (PLA), poli idrossialcanoati (PHA), poli glicolidi (PGA), poli diossanoni (PDS) etc.: una miscela biodegradabile e compostabile secondo la 13432, con l’attestazione dei loghi degli enti di certificazione.
Ma che fine fanno i sacchetti ultraleggeri compostabili in ambiente marino?
Se ingeriti dalla fauna pongono gli stessi problemi di tutti i sacchi di plastica. In compenso vengono degradati dai microrganismi marini e la loro completa scomparsa, senza formazione di microplastiche, avviene al massimo entro un anno contro i 100-1000 anni delle plastiche classiche.
Sul mercato internazionale esistono vari materiali certificati. In Italia il più diffuso è MaterBi della Novamont, la cui produzione è anche delocalizzata nel sudest asiatico.