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Passeggiata tra il pianeta Marte e la science fiction

 

Passeggiata tra il pianeta Marte e la science fiction

di Gianni Ursini

pianeta marte superficie

 

Il pianeta Marte ha sempre esercitato un’attrazione indiscutibile per l’umanità: dopo la Luna (e ovviamente il Sole) è stato il corpo celeste più studiato dagli astronomi e il più sfruttato in campo cinematografico e letterario

Fino a quando le prime sonde interplanetarie dimostrarono che i canali osservati da Giovanni Schiaparelli (1835–1910), Percival Lowell (1855–1916) e tanti altri, erano solo illusioni ottiche, molte speculazioni scientifico – letterarie erano basate sul fatto che su Marte ci doveva essere una forma di vita. Di questo era fermamente convinto anche Camille Flammarion (1842–1925), astronomo francese celebre soprattutto come divulgatore di conoscenze astronomiche. Le sue opere, tra cui l’ “Astronomia Popolare“ (1880) ebbero una diffusione enorme, ed è facile che la loro lettura abbia influenzato il giovane Herbert George Wells quando nel 1897 scrisse il suo noto romanzo “La Guerra dei Mondi“, in cui si descriveva con impressionante realismo una ipotetica invasione dei Marziani sulla Terra.

Ancora nel 1933 uno scienziato tedesco, tale Desiderius Papp, era convintissimo dell’esistenza della vita intelligente su Marte, e arrivava a descriverla minutamente con grafici e disegni nel libro “Chi vive sulle Stelle?“ (Bompiani, 1934 ).

Negli USA, la patria di Percival Lowell, nessuno osava mettere in dubbio l’esistenza dei Marziani, e ciò è dimostrato dal fatto che Orson Welles nel 1938 riuscì a terrorizzare metà della popolazione americana con un semplice radiodramma ispirato al già citato romanzo di H. G. Wells “La Guerra dei Mondi“.

In campo fantascientifico, anche nel secondo dopoguerra fu quasi una bestemmia affermare che Marte fosse un pianeta sterile, e che l’attività biologica vi fosse impossibile. Nel 1953 il celebre film di Byron Haskin (tratto anche quello dal romanzo “La Guerra dei Mondi“) iniziava con una sequenza curata dal pittore Chesley Bonestell che illustrava i vari mondi del sistema solare, dando per scontata l’abitabilità di Marte.

Ricordo che mi arrabbiai moltissimo quando nel 1959 uscì il film di Antonio Margheriti “Space Men” in cui con insospettabile rigore scientifico si affermava che nel Sistema solare la vita esisteva solo sul pianeta Terra. Appena sei anni dopo, nel 1965, arrivarono a Terra le prime 22 fotografie di Marte scattate dalla sonda spaziale Mariner 4. Non mostravano tracce di canali, ma una superficie arida e desolata costellata di crateri, simile a quella della Luna. Fu una grossa delusione per tutti, ma molti non si lasciarono convincere nemmeno dall’evidenza.

Questa irriducibile e assurda speranza nella scoperta di vita intelligente su Marte dura tuttora.

Negli USA è stata alimentata dai romanzi pseudo-fantascientifici di Edgar Rice Burroughs (1875– 1950), da noi noto per le storie di Tarzan, ma in patria celebre per il “ciclo di Barsoom”, (1912–1940), nel quale un giovane ufficiale dell’esercito sudista di nome John Carter viene trasportato come per magia sul Pianeta rosso, in cui trova creature favolose, città perdute e belle donzelle da salvare, in una serie di interminabili avventure.

Né bisogna dimenticare l’enorme successo ottenuto in tutto il mondo dal romanzo di Ray Bradbury “Cronache Marziane“ (1954), nel quale si favoleggia dell’incontro degli esploratori terrestri con un’antichissima ed enormemente evoluta civiltà marziana. Probabilmente lo stesso Ray Bradbury, che nell’agosto del 2000 aveva raggiunto l’invidiabile età di ottant’anni suonati, avrà apprezzato molto “Mission to Mars” di Brian De Palma.

L’eclettico regista italo-americano non si era mai cimentato con una storia di fantascienza spaziale, anche se non aveva disdegnato l’incontro con tema molto caro agli autori di science- fiction, quello dei poteri extrasensoriali, nel riuscitissimo “Carrie” (1976) e nel successivo “Fury” (1978). “Mission to Mars”, interpretato da Gary Sinise e da Tim Robbins, è un film composito in cui il regista si diverte a confondere le idee degli spettatori, accentuando la sua abituale tendenza a mescolare diversi generi cinematografici.

Inizio magistrale: un’astronave che esplode in fase di decollo, si rivela essere null’altro che un giocattolo pirotecnico usato in occasione della festa di compleanno di uno degli astronauti. Poi il film ci scaraventa in piena atmosfera marziana, riprodotta al top grazie agli splendidi effetti speciali curati da due delle maggiori case di produzione esperte in trucchi ottici ed elettronici: l’ Industrial Light and Magic di George Lucas, e la Dream Quest Image.

Nel film si immagina che nell’anno 2020 la prima esplorazione umana di Marte abbia il compito di studiare un sito già ben conosciuto ai giorni nostri, dove una grande formazione rocciosa fotografata dallo spazio, assume l’aspetto di una faccia quasi umana. Una volta giunti sul posto, gli astronauti tentano di sondarla, ma l’intero picco esplode ed essi vengono travolti e decimati da una terribile tempesta di sabbia. Si salva l’astronauta nero che rimarrà, novello Robinson Crusoè, ad attendere i soccorsi. Qui Brian De Palma fa apertamente riferimento ad un vecchio film di Byron Haskin intitolato proprio “Robinson Crusoè su Marte” (USA 1964). Dopo che la prima missione umana su Marte si è risolta in un disastro, viene organizzata una spedizione internazionale di soccorso per indagare sulle cause dell’incidente. A questo punto, tra i preparativi della missione e gli inconvenienti spaziali in volo, il film diventa noiosetto, e comincia ad assomigliare sempre di più ad uno dei soliti film sulle imprese spaziali tipo “Apollo 13” di Ron Howard (USA 1995). Intendiamoci: anche la parte centrale della pellicola è molto spettacolare e tecnologicamente impeccabile, ma manca di “epos“, e tutto quello che vi succede è maledettamente prevedibile.

Il film riprende quota nell’ultimo quarto d’ora, quando il regista, ancora una volta, cambia completamente stile ed abbandona qualsiasi pretesa di verosimiglianza scientifica dal momento in cui gli astronauti mettono piede all’interno di un enorme manufatto alieno sorto dalle profondità del pianeta. Da questo punto in poi “Mission to Mars” sembra diventare sempre più un concentrato di sequenze tratte da opere come “2001, Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick (1968) ed “Incontri ravvicinati del Terzo Tipo” di Steven Spielberg (1977).

Durante gli ultimi 10 minuti di proiezione gli spettatori vengono bersagliati da tante di quelle immagini rutilanti che la pellicola sembra scorrere a una velocità doppia del normale. Contemporaneamente, spiegazioni e rivelazioni si susseguono ad un ritmo talmente frenetico che riesce molto difficile porre attenzione a tutto quanto succede. In pochissimi minuti si viene a sapere che, certo, i marziani ci sono, o meglio c’erano fino ad un paio di miliardi d’anni prima, quando il loro pianeta fu desertificato in seguito all’impatto con un enorme asteroide. E dove sono andati? Sono scappati in un’altra Galassia a bordo delle loro astronavi iper-luminiche, non senza aver lasciato sulla nostra Terra il seme della vita. Il film si conclude con un giubilante Gary Sinise che sale a bordo dell’ultima astronave marziana in partenza per distinazione ignota, come aveva fatto Richard Dreyfuss in “Incontri ravvicinati del Terzo Tipo”, lasciando nella testa degli spettatori un milione di domande che rimarranno senza risposta. Un film discontinuo, confuso e riuscito forse solo a metà, Ma che ancora oggi ricordiamo come una delle migliori pellicole di fantascienza uscite nell’epico anno 2000.

NOTA REDAZIONALE

Questo articolo è tratto dia numerosi scritti di Gianni Ursini, titolare delLa rubrica “Al cinema con Gianni Ursini” per Konrad, da molti anni. Gianni è intrappolato da una lunga convalescenza che non gli consente al momento di scrivere recensioni. Tutta la Redazione gli augura di stringere i denti e tornare presto a dilettarci con le sue mirabolanti e colte recensioni. Ti aspettiamo, Gianni!

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