Gli antichi cartografi usavano definire terrae incognitae quelle zone del mondo ancora inesplorate, paesi di grande fascino e ricchezze, che troppo spesso ancora oggi chiamiamo con identica vaghezza e approssimazione Africa. A ricordarci che l’Africa è un continente di cinquantaquattro stati con storie e produzioni culturali molto diverse tra loro è la mostra fotografica Ritratti africani, a cura di Filippo Maggia, al Magazzino delle Idee di Trieste.
Attraverso gli scatti di Seydou Keïta, Malick Sidibé e Samuel Fosso veniamo così introdotti alla fotografia di ritratto che è stata una tradizione peculiare di paesi come il Mali e la Repubblica Centrafricana.

Seydou Keïta, Malick Sidibé e Samuel Fosso sono accomunati dal fatto di aver cominciato da autodidatti per poi aprire dei loro studi e, soprattutto, rappresentano una linea temporale ben definita. Le loro fotografie ci parlano di colonialismo e post-colonialismo, e hanno “voci” che riportano alla mente Gayatri Spivak e la tormentata questione Can the Subaltern Speak?
Così Seydou Keïta, nato a Bamako nel 1921, ci fa conoscere i maliani del periodo coloniale. Nel suo studio allestisce fondali che si abbinano perfettamente alle stoffe dei vestiti delle persone ritratte, fino quasi a farli sembrare degli altorilievi, o presta loro abiti ed accessori per fotografie che sono un’aspirazione, un desiderio. Bastano infatti una giacca, un orologio da polso ed una penna stilografica infilata nel taschino per farsi ritrarre per come si vorrebbe essere, per uniformarsi a un modello di francesità.
Con Malick Sidibé siamo nel Mali da poco indipendente, un paese appena nato, giovane, e giovani sono i

soggetti che ritrae. È una generazione nuova che va ancora nel suo studio a farsi fotografare, ma che lui va anche a cercare fuori. Li ritrae in spiaggia, mentre ballano, sorridenti e belli: sono la gioia di vivere, la speranza, un futuro tutto da costruire.
Samuel Fosso nasce in Camerun nel 1962, cresce nella regione del Biafra da cui fugge a causa della guerra civile per approdare a Bangui, nella Repubblica Centrafricana. Qui ad appena tredici anni apre il suo studio. A sera, dopo una giornata di lavoro, per non sprecare gli ultimi due fotogrammi del rullino, gira la macchina fotografica e si ritrae dentro a scenari e in pose perfettamente costruiti. L’intento iniziale è quello di fare delle foto da spedire alla nonna in Nigeria, ma ben presto questo gesto di auto-fotografarsi acquisirà una precisa consapevolezza artistica, perché come mi dice il curatore Filippo Maggia: «è lo sguardo su di sé contrapposto allo sguardo esterno, è lo stadio di una raggiunta africanità». Ed ecco quindi che gli scenari e gli abiti si fanno via via più articolati e densi di significato: Fosso diventa una donna americana libera degli anni Settanta, un rocker, un pirata. Fino alla intensa serie di scatti intitolata African Spirits, in cui impersona Angela Davis, Carlos, Nelson Mandela, ecc. dando vita ad un suo personale quanto politico panteon.

Se la fotografa Margaret Bourke-White scriveva che «una foto implora un’interpretazione», le quasi cento fotografie presentate in questa mostra per essere interpretate e capite, ci chiedono di fermarci a riflettere su contesti geografici ben definiti e su temi che comprendono colonialismo, decolonizzazione, radici e identità.
La mostra è visitabile al Magazzino delle Idee di Trieste fino all’11 giugno 2023.
Cristina Rovere