Mi occupo di neurobiologia da anni. Amo l’idea di poter dare una spiegazione biologica a ciò che ci rende ciò che siamo. È la mia porta d’accesso a un universo parallelo, misterioso, microscopico, che ci circonda e ci permea. Varcare questa porta è un privilegio, ma ha un prezzo.
La prassi scientifica obbliga lo studioso al metodo, e la pratica del metodo rischia di vincolare la visione del mondo dello studioso e di restringerne la visuale. Nonostante anni di scienza, in me sono sempre convissuti due studiosi (per così dire): lo scienziato e l’umanista. La convivenza tra i due non è sempre facile né pacifica ma, certo, è inevitabile. Lo scienziato aiuta l’umanista a studiare, leggere, interpretare la vita in maniera sistematica e disciplinata, l’umanista aiuta lo scienziato a inserire ciò che studia in un orizzonte di senso più ampio e, al contempo, più intimo. Entrambi sono necessari alla mia ecologia interiore poiché il mondo naturale è inesauribile fonte di meraviglia e curiosità e osservare con stupore è forse il primo atto che porta alla riflessione filosofica e a stimolare l’immaginazione.
Per questo motivo sono fermamente convinto che la biologia abbia molto da condividere con le discipline umanistiche. Un’idea non certo nuova. Eppure, dopo un inizio decisamente affiatato (si pensi al mondo antico e ai filosofi della natura o physis), filosofia e biologia smisero di parlarsi per molto tempo. Data la mancanza di tecnologie adeguate a indagini approfondite sui meccanismi alla base della vita, la biologia si focalizzò sull’unica caratteristica dei viventi a portata dell’occhio umano: la diversità. Ciò la relegò, per qualche secolo, al rango di semplice disciplina classificatoria, povera di grandi teorie e quindi di potenziale speculativo. La spiegazione della diversità dei viventi venne inoltre delegata a una teologia naturale contaminata da qualche strascico aristotelico.
Ciò, la rendeva persino indegna di essere annoverata tra le “vere” scienze come la fisica che, grazie all’utilizzo di sempre più raffinati strumenti matematici, riusciva a spiegare e persino predire il comportamento dei corpi come in cielo così in terra. Come vedremo, la biologia dovrà sgomitare non poco per guadagnarsi uno spazio tra le scienze, tagliando il cordone ombelicale che la legava ai due pilastri della cultura occidentale: l’antichità e il cristianesimo. Si dovrà attendere la seconda metà del 1800 per avere una biologia scientifica, affrancata dalla spiegazione teologico-aristotelica e capace di produrre autonomamente le proprie teorie basandosi su osservazioni sperimentali.
Forse a causa di questa secolare sete di affrancamento e volontà di definire la loro disciplina come “scienza dura”, i biologi hanno parlato poco di filosofia e, storicamente, la filosofia della scienza è stata scritta da fisici e matematici che da sempre attingono al comune terreno della filosofia logica come spazio di dialogo intermedio lasciando la biologia un po’ in disparte. Recentemente, le neuroscienze sono riuscite a rompere questo lungo silenzio forse perché, più di ogni altra disciplina biologica, parlano di ciò che siamo.
Operando un’invasione di campo senza precedenti, questa disciplina sembra voler utilizzare gli strumenti affilati del determinismo biologico e genetico per ridurre a semplice meccanismo gli aspetti più intimi della nostra esistenza: emozioni, sentimenti, ricordi, legami affettivi, libero arbitrio, da sempre ambiti dominati dalle scienze umane, dividendo l’opinione pubblica (e spesso anche quella degli addetti ai lavori) in due fronti opposti: da una parte una vera e propria neuromania che inneggia al riduzionismo neurobiologico, osteggiata, dall’altra parte, da una decisa neurofobia che rischia escludere dal dialogo la biologia, a mio parare parte essenziale di una spiegazione che però necessità anche d’altro. Nel 1972, la storica warburghiana Frances Yates, nella Premessa all’edizione italiana del suo classico L’arte della memoria scrisse:
Quello che mi ha soprattutto interessato nel redigere questo lavoro è come la storia della memoria riesca ad abbracciare la storia della cultura nel suo complesso. Le barriere tra le diverse discipline, tra scienze naturali e scienze umane, tra arte e letteratura, tra filosofia e religione, spariscono nella storia della memoria.
Naturalmente Yates, in quanto storica, non analizza il problema partendo da una prospettiva biologica, ma ritengo il suo proposito una rara fonte di ispirazione per chi, come me, cerca costantemente di mediare tra due mondi apparentemente opposti. Se le relazioni della memoria (tema caldo in neuroscienze) con la “cultura nel suo complesso” possono risultare abbastanza intuitive alla maggior parte delle persone, forse meno immediate possono risultare le relazioni tra la cultura e ciò che sappiamo oggi della biologia del sistema nervoso. Eppure, la mente umana, come una wunderkammer, è abbastanza ampia da contenere le meraviglie del mondo intero.
Nello spazio di questa rubrica, vorrei anch’io dare un modesto contributo nel far sparire le barriere tra le diverse discipline raccontando le neuroscienze tramite la loro storia, le implicazioni filosofiche del punto di vista biologico sulla mente e le loro relazioni con arte e letteratura. Una chiacchierata dopo l’altra spero di trasmettere l’idea che, un po’ come nell’incisione The spiritual mind del medico e alchimista inglese Robert Fludd, l’approccio biologico allo studio della mente umana si nutre necessariamente anche d’altro in un rapporto costante di interscambio senza il quale la nostra visione delle cose risulterebbe distorta e impoverita.
Christian Memo