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Culture Società e Diritti

Il futuro in quinta elementare

È già realtà: le differenze culturali e di provenienza arricchiscono tutti. Ce lo insegnano i bambini

di Simonetta Lorigliola

Mio figlio ha dieci anni e frequenta la quinta elementare. Si, lo so: si dovrebbe dire il quinto anno della scuola primaria. Ma tant’è, come dice una mia amica linguista, l’importante, alla fine, è capirsi. Le parole sono importanti, ma sono soprattutto strumenti per la relazione. L’essenziale è capirsi.

Classe quinta

In classe sono in 19, 11 bambine e 8 bambini. 12 sono italiani e 7 stranieri. 

Magdalena e Svetlana sono serbe. Delle due Sofia, bel nome greco di sapienza e virtù, una è proprio greca, l’altra è serba, poco lontano in fondo. Alban risponde al detto nomen est homen viene dal Kosovo e la sua famiglia è albanese. Albanese è anche Ernela.

Binar, arrivato quest’anno, ha la palma dei chilometri percorsi perchè viene dall’Iraq, passando da Mazara del Vallo. Nella foto non lo vedete: è quella dell’anno scorso e al “suo” posto c’era Luca, che è tornato in Romania. Ricordo bene la bontà delle sarme di Simona, la sua solare mamma che le aveva preparate per la festa di fine anno. Dove tutti avevano cucinato e portato qualcosa: c’erano burek, arroz y frijoles, sopska salata, polenta, empanadas, pane carasau, musetto, putizze, taralli…

Si perchè tra quei 12 italiani, a ben vedere, l’origine autoctona è arricchita e mescolata. 

Il papà di Jasmìn, Alberto, viene da L’Avana e quello di Greta, Pablo, viene da Buenos Aires anche se i suoi nonni erano tutti italiani, migranti dall’Italia verso Lamerica e viceversa, varie volte, come si usava, ma tutti sepolti in Argentina, ultima patria. Storie vecchie, storie nuove. Federica è romana de Roma, il papà di Lucia è napoletano e quello di Francesco M. viene da Cerignola, nella bella Puglia. Quanti autoctoni garantiti al 100% restano? Restano Emma, Gabriele, Nicolò, Valentina, Francesco D., Cristian e Miro. Sono sei. Però è da vedere dove vogliamo mettere il confine, sport molto di moda ultimamente. 

Se il confine è la regione, salta Francesco D.: i suoi genitori sono veneti. Se il confine diventa il Lisert (come qualcuno auspica, a tratti) salta Cristian, la cui mamma è friulana, come me del resto e salta anche mio figlio Miro, che ha pure il papà nato in Kenya e vissuto a lungo in Africa e America Latina, approdando solo saltuariamente a Verona. 

Chi resta di “autoctono puro”? 

Valentina. Ma veramente ha un nonno che è sardo e vive in Sardegna. Nicolò? Anche lui ha il nonno friulano e i bisnonni pugliesi… Adesso sarei tentata di indagare sui nonni e bisnonni di Gabriele ed Emma che sono gli unici due che risultano, con le informazioni parziali che possiedo, “autoctoni”. Essendo triestini, non stento a immaginare che qualche provenienza incrociata ci sia nei loro alberi genealogici. O forse no. Ma è importante?

Per capirsi, la domanda vera è: quanto conta la provenienza del singolo nella costruzione di una convivenza comunitaria?

Davvero sarebbe meglio che gli italiani (o i triestini, o i polacchi, o i sardi, o gli sloveni…) fossero protetti? Questo ci stanno dicendo le nuove (vecchie?) politiche emergenti in Europa e nel mondo: che è meglio che ognuno resti a casa propria e curi i propri diritti e interessi (per chi ne ha, gli altri curino le proprie miserie).

Per rispondere a questa domanda non dobbiamo far teoria, ma pratica. Questa classe quinta ha sperimentato un percorso lungo quattro anni.

Le diverse culture, lingue, abitudini hanno creato divisioni, classifiche, compartimenti stagni, conflittualità, fastidi tra bambini o tra genitori? La risposta è semplice: no.

Tutto fila più liscio che non si può. O, meglio, ci sono tutti gli alti e bassi di qualunque situazione: chi studia di più, chi di meno, chi è più amico, di uno, chi meno…per varie ragioni tra cui la lingua e la nazionalità non sono dirimenti. La classe marcia, i bambini imparano, giocano, crescono. Normalmente.

Allora forse le insegnanti hanno fatto il miracolo? 

Su questo qualcosa bisogna pur dire. La scuola è a tempo pieno, una delle poche sopravvissute nel tourbillon delle varie riforme che non hanno aiutato questa modalità didattica. Le “maestre” principali sono due: una per l’ambito letterario (italiano, storia, grammatica, disegno…) e una per lo scientifico (matematica, geometria, geografia…). A parte ci sono una maestra di inglese, una che insegna la religione cattolica e una per “alternativa” riservata a chi sceglie di non frequentare “l’ora di religione” cattolica (che sono due). Le due insegnanti “portanti” hanno fatto il miracolo?

A loro non ho posto il quesito, ma conoscendole sono sicura che mi risponderebbero che hanno solo fatto il loro lavoro.

Un lavoro sempre troppo sottovalutato. Hanno in carico una ventina di bambini, per otto ore al giorno. Devono condurre un percorso didattico e raggiungere, “gli obiettivi dell’apprendimento”.

Ma il tempo pieno non è pura didattica. È tempo per la socialità, per il gioco (forma essenziale di relazione con l’altro), per il confronto. Per le chiacchiere condivise: queste maestre ne hanno fatte e promosse a bizzeffe coi bambini, facendoli confrontare e ragionare su ogni cosa: dal Neolitico alla fotosintesi fino all’etica sociale.

È ovvio che la professionalità e la sensibilità degli insegnanti sia centrale. Come lo è la loro responsabilità: quello che dicono ai bambini è oro colato.

E conta anche l’indirizzo della scuola. Questa qui, da alcuni anni, ha posto al centro della sua “mission” (vi piace “mission”? a me no, ma basta capirsi) una parola e una pratica: l’inclusione. Il clima dell’istituto è caratterizzato da una ricerca quotidiana nel mettere in pratica un’importante scelta.

Tutto questo, diciamolo per capirci, fa brodo. E ne fa di sostanzioso.

Ma il l’ingrediente principale e irrinunciabile del brodo, è solo quello umano.

Le bambine e i bambini si sono amalgamati spontaneamente.

Anche i genitori – l’altro elemento umano presente nel quadro- hanno fatto la loro parte. Sono stati genitori ad alta sensibilità, tutti quanti. Hanno perfino proposto di “entrare” in classe portando ognuno storie e filastrocche nelle loro lingue. Le insegnanti hanno accolto felici la proposta. Grazie alle diverse provenienze i bambini hanno viaggiato per il “loro” mondo formato dalle provenienze delle famiglie. Bello sarebbe che questi percorsi fossero compresi nei programmi scolastici!

Questa classe, per chiudere, è una piccola comunità che ha costruito la convivenza felice in modo naturale. La socialità tra loro non guarda in faccia a lingue, provenienze (geografiche o sociali). Quelle differenze i bambini le fanno pesare solo se sono gli adulti a imporne la lettura. A loro non interessano. A loro importa giocare, fare le cose assieme, farsi amiche e amici. Avranno le loro preferenze, è ovvio: ma saranno trasversali.

Mio figlio è sempre in difficoltà quando gli chiedono se in classe sua ci siano stranieri. Annuisce, perchè lo sa ma a volte non ricorda nemmeno le provenienze. Le conosce, ma le dimentica ogni giorno perchè per lui non sono significative. Le cose “sociali” irrinunciabili sono giocare ad acchiapparella, scambiarsi figurine, scoprire passioni comuni, inventare storie insieme. Il resto è solo ideologia.

Questi bambini ci danno un concreto insegnamento, pratico e già funzionante: loro sono il futuro e vivono già nel futuro, quando sperimentano ogni giorno un’armonia possibile al di là di ogni differenza individuale, culturale, sociale.

Signori e signore, il domani è già qui. Questi bambini ci stanno dicendo come va il mondo, quale direzione ha già preso. E può essere una nuova e felice direzione.

Ma bisogna guardarli con attenzione, e ascoltarli. Imitarli, perfino. In cattedra ci sono loro.

Prendiamo nota e impariamo. Altrimenti le nostre teste continueranno a guardare solo indietro.

Loro, invece, avanti, ci sono già da un pezzo. Chapeaux, les enfants!

 

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1 comment

Attilio 15 Ottobre 2018 at 18:02

Ben detto. Brava!!! Un bacio a Miro

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