INTERNATIONAL RIGHTS di Giuliano Prandini
Il Viaggio della Memoria nell’ex Jugoslavia con l’Associazione Quarantasettezeroquattro inizia al confine, segnato dalla Sava, tra Croazia e Bosnia – Erzegovina. Del campo di lavoro e sterminio di Jasenovac non rimane nulla. Aperto dalle autorità dello stato fantoccio croato nel 1941 fu distrutto dagli ustascia, alla fine della guerra, nel 1945, prima dell’arrivo delle truppe di Tito.
Oggi resta un’ampia radura verde, laghetti, lo scorrere del fiume: un paesaggio bucolico. Fu il luogo delle sofferenze e morte di decine di migliaia di serbi, ebrei, rom.
Al di là della Sava, nella Repubblica Srpska (una delle due entità della Bosnia ed Erzegovina), il Memoriale di Donja Gradina mobilitava la popolazione serba, all’inizio della guerra del 1991, con il ricordo delle violenze subite dai croati.
La memoria non è condivisa e quest’anno ci sono state tre diverse commemorazioni: quella ebraica, quella di stato (disertata dalle associazioni delle vittime per le posizioni revisioniste di autorità croate) e quella della comunità serba e antifascista croata. All’austriaca Diana Budisavljević, che salvò dal campo migliaia di bambini serbi, è stata intitolata una via a Belgrado, in Croazia aspetta ancora un uguale riconoscimento.
A Prijedor, per motivi di sicurezza, Mirsad Duratović, presidente bosgnacco dell’Associazione degli Internati Prijedor 92, sposta l’incontro in un albergo della periferia. Ricorda le vittime musulmane e croate dopo che nel 1992 i serbi, preso il controllo della città, dettero inizio alla pulizia etnica.
Ai non serbi fu ordinato di portare al braccio un nastro bianco e di appendere alle finestre lenzuola bianche. 30.000 non serbi passarono per i campi di Omarska, Keraterm, Trnopolje; le vittime furono oltre 3.000. Duratović aveva 17 anni quando fu rinchiuso in un campo, 47 dei suoi familiari furono uccisi, gli è rimasta solo la madre.
Ora vittime e carnefici si incontrano in strada. ”Nel campo di Trnopolje sono stati eretti monumenti ai combattenti della Repubblica Srpska, è come se ad Auschwitz avessero dedicato monumenti alle SS”.
Il 31 maggio 2012 un ragazzo, Emir Hodžić, rimase da solo in silenzio tutto il pomeriggio nella piazza principale di Prijedor, con un nastro bianco al braccio. Da allora viene commemorata la Giornata dei Nastri Bianchi. È un buon inizio, ma una cittadinanza condivisa è ancora da venire. Il partito nazionalista serbo ha la maggioranza assoluta, nega le persecuzioni e i crimini e la discriminazione contro i non serbi continua.
A Travnik incontriamo le prime donne completamente velate. Visitiamo la casa di Ivo Andrić: nemmeno sul valore delle sue opere le élite culturali sono concordi.
La Biblioteca Nazionale di Sarajevo è stata finalmente restaurata, ma i libri rimangono altrove. In una visita di molti anni fa l’artista Jannis Kounellis aveva allestito nove grandi strutture con libri, pietre, sacchi di iuta per chiudere le porte dell’atrio. Ora nella Biblioteca ci entrano le nuove coppie di sposi, in posa per l’album di nozze.
Oltre il ponte sulla Miljacka, in una birreria, ci aspetta il giornalista Rodolfo Toè. I dati del censimento del 2013, dopo lunghe attese e polemiche, sono stati da poco pubblicati. “In Bosnia Erzegovina è stata attuata la pulizia etnica, su 140 municipalità solo in cinque o sei non c’è un gruppo etnico con una maggioranza assoluta (Mostar, Jajce, Brcko…). Sarajevo è in gran parte musulmana; nella Repubblica Srpska vivono praticamente solo serbi”.
Rispetto ai dati statistici del 1991 la popolazione è diminuita del venti per cento, la disoccupazione giovanile è la più alta in Europa, ma anche chi ha un lavoro vuole emigrare. “Il rischio attuale è che questo paese si spopoli, diventi vecchio e muoia su se stesso”. (continua )