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Kungfu wushu

kungfu

Se in un mondo isolato, come quello giapponese con 1300 anni di storia e (attualmente) 127 milioni di abitanti, è stato realizzato quel mondo delle Arti Marziali del quale stiamo scrivendo da più di un anno, che cosa può essere stato prodotto in Cina, durante i 3300 anni trascorsi dalla creazione della scrittura ideogrammatica e con quasi 1,4 miliardi di abitanti? Iniziamo quindi, con questo articolo, a spostarci geograficamente verso ovest nella terra madre (assieme all’India) di ogni filosofia orientale.

Premetto subito che vi sarà un po’ di difficoltà nella scelta dei termini: il problema è doppio. Una parte consiste nel fatto che il cinese mandarino, usato a Pechino ed in tutto il nord del paese (e lingua ufficiale) ed il cinese cantonese, usato in tutto il grande sud, si somigliano quanto l’italiano e lo spagnolo. Un ulteriore problema sono i due sistemi di traslitterazione della lingua; il sistema più semplice per un occidentale è quello chiamato Wade-Giles, mentre quello riconosciuto nella stessa Cina è il pinyin. Cercherò di usare i termini più comprensibili all’orecchio di un pubblico non specialistico.

Il termine wu-shu (usato per la prima volta nel sesto secolo) è composto da 2 caratteri e traducibile con “arti marziali”; condivide il primo carattere con la parola giapponese bu-jutsu a cui è accostabile per significato. La parola kung-fu è anch’essa composta da 2 caratteri ed è un termine generico per indicare un “esercizio eseguito con abilità” e dove l’ambito marziale è sottinteso; le due parole unite potrebbero essere tradotte e semplificate in “abilità marziale”.

Ci sono diversi modi per poter suddividere il mondo del kungfu wushu; qualcuno distingue fra stili del nord e quelli del sud, con il confine posto sul Fiume Azzurro; quelli settentrionali sono basati su posizioni ampie, molti calci, diversi salti, pugni solitamente richiamati; diversamente gli stili meridionali prevedono posizioni più alte e strette, minore uso delle gambe, pugni potenti non richiamati. Sembra che queste differenze possano provenire dall’ambiente nel quale si svolge il combattimento: terreno duro al nord, fango della risaia al sud, ma oggi tutto questo sembra mescolato e superato.

Una diversa suddivisione, ancora attuale e possibile (nonché molto più recentemente ideata), è quella in stili esterni ed interni. I primi prevalgono decisamente per numero e si basano molto più sull’aspetto fisico del combattimento, impetuoso e travolgente, i secondi tendono a dissimulare il gesto marziale e si concentrano maggiormente sugli aspetti psico-fisici ed energetici, dove la difesa prevale sull’attacco, con più proiezioni e studio dei punti vitali. Siccome fra il bianco ed il nero si trovano infiniti toni di grigio, così il confine fra questi due modi di concepire le arti marziali è sempre generico e puramente indicativo.

Andando a rileggere l’articolo sul karate, gli stili del nord e del sud trovano rispettivamente corrispondenza negli stili Shuri-te (shorin-ryu) e Naha-te (shorei-ryu) di Okinawa.

Il più noto degli stili esterni è probabilmente quello praticato dai monaci del tempio di shaolin, creato, secondo la tradizione nel VI secolo, dal monaco indiano Bodhidharma (ribattezzato Tamo dai cinesi e successivamente Daruma in Giappone), colui che ha portato il buddismo in Cina (chiamato buddismo chan, e successivamente zen in Giappone).

Lo stile interno più diffuso è sicuramente il taichi chuan (frammentato in molte e diverse scuole) che la leggenda vuole ideato dall’immortale taoista Chang San Feng (XIII secolo).

Sarà proprio dagli stili interni ed in particolare dal taichi chuan che partiremo nella prossima puntata per il tratto cinese del nostro percorso.

Muzio Bobbio

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