-di Riccardo Ravalli (testo e foto) –
La Val di Cembra, la viticoltura estrema e un nuovo turismo di montagna
Lo zaino, il panino e la borraccia mi hanno fatto compagnia in moltissime gite in montagna, da prima dell’età della ragione. Poi anche la macchina fotografica, utilizzata per foto di paesaggi, senza tante pretese, o di particolari naturalistici.
Forse queste le premesse del mio interesse per la lunghissima storia geologica delle “Terre Alte”.
Viverle, sia pure saltuariamente, significa domandarsi chi abbia costruito un ponte o un vecchio mulino, quali le ragioni di un sentiero, di un maso o dei terrazzamenti di molte valli alpine.
Val di Cembra. Più di 700 km di terrazzamenti dal vecchio maso del Doss de la Fraìne fino alla Serra di S. Giorgio, cesellata in un tempo immemorabile dai ghiacci, ora in via d’estinzione, della Marmolada e che alimentano l’Avisio e, da ultimo, da migliaia di mani umane.
Leggo i segni della vita nei vigneti della valle, con l’emozione di un dialogo attraverso il tempo, nel documentario antropologico “Contadini di montagna” di Michele Trentini, premiato al Trento Film Festival 2015.
Il versante esposto a sud est, baciato dal sole tutto il giorno, rappresenta un’incredibile sintesi tra azioni singole e puntali dell’uomo e un progetto non scritto, secolare e collettivo.
Un contadino di montagna afferma: “Se le rocce dei suoi terrazzamenti e del maso potessero parlare…” riferendosi alle fatiche delle generazioni di suoi antenati che hanno passato le loro esistenze, abbarbicati su quei pastini. Una fedeltà ai luoghi, quasi non comprensibile, per noi abituati o costretti a evadere dall’asettica realtà di ogni giorno.
Le pietre raccontano molto di più: la commistione di calcari e dolomie con rocce di origine vulcanica, i porfidi, alimentati dal cuore igneo che ha pulsato 260 milioni d’anni fa nei pressi di Predazzo, quasi contemporaneamente e non lontano dagli atolli da cui si sono formate le celeberrime Dolomiti. Barriere naturali qui superate da vie di collegamento lungo le valli di Fiemme e di Fassa e quella parallela dell’Adige.
Albrecht Dürer è passato di qui alla fine del Quattrocento: suoi affreschi ritraggono il Castello di Segonzano. Da lì, oggi, un itinerario dedicato al celebre pittore, permette di visitare le famose Piramidi, frutto dell’erosione di depositi morenici di origine glaciale.
Questi vigneti che si confrontano con l’estrazione di porfido, fiorita sull’altro versante, sono la vera opera d’arte della valle, in passato, una delle più povere del Trentino. Poi un momento d’oro, grazie alla pietra, ora in crisi, quindi con la vite, superando un’economia agricola di pura sussistenza. La gente di montagna ha dovuto adeguarsi alle leggi di pianura; anche non tutelando la qualità dei propri prodotti, quando si puntava tutto sulla quantità.
Ora sono state recepite le specifiche esigenze delle terre alte e compreso il ruolo delle genti che le difendono. Mantenere ben distinti i due mondi, valorizzare tradizioni secolari, arricchite anche da innovazioni, proposte da tecnici, e mediate dall’esperienza per uno sviluppo armonico ed equilibrato.
Va superata, qui come altrove, la logica delle monoculture: dallo sci, all’occhiale, dalla mela al vino, anche se pregiato.
Nuovi equilibri e nuove possibilità, nel rispetto della tradizione, individuano un terzo momento, attuale, e un futuro che assicurano qualità e mercato ai prodotti generati in quota, a sapori particolari che si stavano perdendo.
La rinascita delle terre alte è premessa per rallentare le ingiurie del dissesto idrogeologico e base di un turismo evoluto.
Basti pensare a quante storie si respirano assieme all’aria buona. Ne sono prova vivente il pino cembro che ha dato nome alla valle e che, come il “loricato”, cugino meridionale, sfida il tempo, vivendo anche quasi 1000 anni. Anche grazie alle dimenticanze della nocciolaia che ne raccoglie i pinoli, nascondendoli in anfratti che poi scorda, e garantendone così la sopravvivenza, specie nelle zone più elevate dei pascoli alpini.