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L’orrore generale per i Femminili nelle professioni
Società e Diritti

L’orrore generale per i Femminili nelle professioni

Sindaca, ministra, ingegnera, o architetta sono solo alcuni dei femminili applicati alle professioni che dopo anni creano ancora orrore e agitazione in molte persone. C’è chi grida alla dittatura del politically correct, chi parla di cacofonia, altri difendono l’onore del maschile neutro, mentre alcuni invocano la grammatica delle medie.
Un argomento quindi che da qualche anno infuoca gli animi su internet e che da subito ha attirato la mia attenzione.
Mi sono iniziata a informare sul tema online seguendo le posizioni a favore dello sdoganamento dell’uso dei femminili nelle professioni; ma illuminante è stato approfondire le posizioni di Vera Gheno, linguista e divulgatrice sui social. Sull’argomento Gheno ha scritto un libro Femminili singolari, in cui espone quella che è poi stata quasi dall’inizio la mia posizione al riguardo.
Al riguardo Gheno sottolinea quanto, nonostante non sempre ci facciamo caso, tutto nella nostra società ruota intorno al linguaggio: che è tanto importante che influisce sul modo di pensare. Perciò chiamare le cose con il nome corretto ha una funzione sociale, psicologica e anche, e soprattutto oserei dire, politica. Le parole che usiamo tutti i giorni hanno nel tempo aiutato a sedimentare stereotipi e differenze di genere, a favore di un retaggio culturale che è stato consuetudine fino a poco fa. La lingua cambia però, e, tornando al discorso dei femminili nelle professioni, il dibattito che ne deriva secondo me è alquanto superfluo: perché se una donna pratica da avvocata andrebbe chiamata avvocato? Soprattutto perché la grammatica italiana ci aiuta ed è semplice da questo punto di vista: applica a qualsiasi parola maschile una sua declinazione femminile.

E dunque il perché di questa indignazione? La consuetudine di cui si parlava sopra. Per decenni siamo stati abituati a rivolgerci a un avvocato, un dottore, un ingegnere solo al maschile perché non c’erano donne che ricoprivano quei ruoli. Persino il suffisso -essa, che per alcuni dei mestieri più comuni è diventato usuale ai giorni nostri, ha un’origine negativa: sottolineava non la professionista bensì la moglie del professionista. Per cui dopo decenni di lavoro concesso solo agli uomini, risulta normale che siano esistiti termini esclusivi per loro; e solo oggi ci poniamo il problema di cambiare le parole perché soltanto negli ultimi anni molte più donne hanno potuto diventare ministre, sindache e avvocate.

Sì diceva che la lingua non è qualcosa di fermo e immobile nel tempo, ma è qualcosa che muta e cambia grazie ai suoi parlanti. Il cambiamento è pertanto importante per aiutare una mutazione anche nella forma mentale dei suoi parlanti.
Credo che ci sia ancora molta reticenza, e non solo da parte degli uomini ma da ambo le parti. Molte donne, come la nostra presidente del consiglio, sottolineano con orgoglio la propria professione al maschile. Spesso questo è dovuto al fatto che, in ambienti ancora fortemente popolati da uomini che ricoprono determinate cariche, la parola al femminile farebbe perdere loro credibilità. Non faccio loro biasimo perché ognuno poi sceglie di essere chiamato come preferisce, e sono anche loro tutti giorni nel mondo ad affrontare le discriminazioni che una donna può avere al giorno d’oggi. Questo non fa altro che sottolineare come il cambiamento sia necessario, per tornare alla tesi della potenza del linguaggio legato alla creazione di stereotipi.
Questi piccoli cambiamenti, battaglie che agli occhi di molti sembrano inutili, possono diventare abitudine domani, con la speranza che per le nostre figlie, o le figlie delle nostre figlie, non abbiano più paura di non essere prese sul serio; ma che per loro usare il femminile nelle professioni diventi la normalità.

Questo articolo è il primo di una nuova rubrica dedicata al femminismo ai giorni nostri, che ha la finalità di raccontare le piccole e grandi battaglie quotidiane che questo movimento affronta. Con la voglia di spiegarlo un po’ a tutti, e la speranza di farlo apprezzare un pochino di più.

 

Giorgia Chiaro

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