– di Eleonora Molea –
L’associazione Re:Common nasce nel 2012 per capire e spiegare come funzionano i mercati finanziari e soprattutto come fermarne l’avanzata nell’ambito delle risorse naturali. Ho avuto il piacere di incontrare una delle fondatrici, Elena Gerebizza, triestina da diversi anni a Roma, che recentemente ha pubblicato due report: “La trappola del gas” ed “Energia e Finanza” (scaricabili su www.recommon.org).

Elena, di che cosa ti occupi precisamente con Re:Common?
Il lavoro di Re:Common si orienta attorno a 3 principali risorse (energia, acqua, terra) verso cui si stanno dirigendo gli investimenti di nuovi attori finanziari, come fondi di private equity, fondi d’investimento, attori privati (aziende energetiche, banche, assicurazioni) e verso cui i mercati hanno iniziato a espandersi grazie a un consistente sostegno pubblico dei governi e delle istituzioni europee. L’ambito di cui mi occupo maggiormente è quello energetico, ovvero petrolio, gas e le infrastrutture collegate.
Da poco ho preso parte ad una missione internazionale in Azerbaigian, dove la Commissione europea intende realizzare un “progetto di interesse comune” nel settore del gas, ovvero un mega gasdotto parte del “Corridoio Sud del Gas”, che dovrebbe attraversare Georgia, Turchia e Grecia e arrivare in Puglia. Abbiamo incontrato attivisti per i diritti umani e verificato gli impatti delle grandi infrastrutture che sono già state costruite per estrarre e trasportare petrolio, visitando le comunità attraversate dagli stessi. Gli interessi in gioco sono importanti e il sistema di relazioni economiche tra la Commissione europea, i paesi membri e il governo dell’Azerbaigian permette la realizzazione di questi progetti a scapito della popolazione, di fatto sostenendo un governo autoritario al potere dagli anni 90.
Ma questi “progetti di interesse comune” non dovrebbero migliorare la qualità della vita?
L’estrazione di petrolio e gas ha effetti negativi spesso devastanti sulle comunità in cui avviene l’estrazione. In Nigeria, hanno inquinato l’acqua, l’aria e persino la terra, tanto che in alcune zone del Delta non esiste più forma di vita. In Azerbaigian l’estrazione ora avviene principalmente in mare, evita l’impatto diretto ma non altri problemi derivati dalla prima raffinazione del gas al terminale sulle sponde del Mar Caspio (emissioni di acido solfidrico e conseguenti patologie polmonari e cardiache), per non parlare degli espropri di terra. Tutti i soldi che entrano nel paese dovrebbero finire in un fondo destinato a infrastrutture sociali, ma sono gestiti dall’élite del governo, la famiglia Aliyev. La ricchezza è molta ma le entrate derivate dal petrolio vengono utilizzate in maniera privatistica e per interventi di facciata del governo e non per la popolazione, che vive per la maggior parte in povertà e non può appellarsi a nessuno.
Perché la Commissione europea investe nel gas in un momento in cui il suo consumo è in diminuzione? Questo mercato è un fine o uno strumento?
La Commissione europea giustifica questi progetti parlando di sicurezza energetica e della necessità di costruire il mercato del gas europeo, ma in realtà si celano interessi di attori finanziari che non sono di certo quelli di chi vive oggi in Europa. Sarebbe opportuno pianificare un sistema energetico per gli anni a venire e ridurre la dipendenza dal gas e dal petrolio, iniziando una trasformazione energetica, produttiva ed economica. Ad oggi invece stiamo andando nella direzione opposta: non solo per la dipendenza dal gas e la richiesta di enormi capitali pubblici, ma per il fatto di permettere che attori privati possano controllare le risorse e le infrastrutture collegate dalla fase di costruzione a quella di distribuzione all’utente finale per garantirsi un profitto altissimo. L’obiettivo di questo mercato non è garantire ad ogni cittadino di potersi riscaldare la casa durante l’inverno, ma è creare dipendenza e fare profitto, stabilendo un’estrazione progressiva di ricchezza dalle nostre tasche e da quello che da molti è considerato un bene comune. Diamo per scontato che il gas sia un diritto, senza chiederci qual è il suo prezzo reale e se sia macchiato di reati come la violazione di diritti umani: dobbiamo essere consapevoli e responsabili delle scelte che vengono intraprese, che siano condivise e che vadano in una direzione di interesse comune.
Come sai, si era tentato di costruire un rigassificatore nella baia di Zaule (TS), ma ora il progetto sembra trasferito a Monfalcone (GO). Cosa ne pensi?
Il progetto conteneva una serie di impatti reali ed assodati ben evidenziati da associazioni ambientaliste e la popolazione è riuscita a far sentire il suo dissenso. Dal 2008 per decreto legge vi è stata una spinta per costruire 11 rigassificatori su tutto il territorio italiano, ma come quello del progetto della Gas Natural nessuno era veramente necessario. Lo conferma il fatto che l’unico completato, quello di Livorno (costato più del doppio rispetto al previsto e finanziato dalla Banca Europea degli Investimenti, e che beneficia tra l’altro della possibilità di ottenere il rimborso dallo Stato del 71,5 % dei mancati ricavi per il sottoutilizzo dell’impianto, il così detto “fattore di garanzia”) è operativo da ottobre scorso e non ha rigassificato nemmeno un metro cubo di gas. L’evidenza conferma quanto detto da anni dal comitato contro il rigassificatore di Livorno, ovvero che questo impianto non serve, l’utilità c’è solo per chi l’ha costruito. E non ha niente a che fare con la sicurezza energetica italiana ed europea.
Parliamo del TAP, il Gasdotto Trans Adriatico, ovvero il tratto del “Corridoio Sud del Gas” che riguarda l’Italia. Cosa sta succedendo in Puglia?
Si sono mobilitate decine di comunità, non solo quelle interessate del comune di Melendugno (LE), per via dell’impatto molto forte che quest’opera avrebbe su mare, sulle falde acquifere, sull’agricoltura e sul turismo, e soprattutto per denunciare l’inutilità totale del progetto. La commissione tecnica istituita dal comune ha rivisto il progetto e riscontrato delle incoerenze che il Ministero ha preso in considerazione tanto che il progetto rischia di non passare la procedura di VIA. La società TAP, registrata in Svizzera, ha lanciato una campagna molto aggressiva, offrendo contributi di 5 miliardi di euro per interventi a tutela della costa, seguita da un’altra per la sponsorizzazione di eventi culturali nell’ambito dell’estate salentina. Un tentativo di comperare il consenso, ma che hanno sortito l’effetto opposto. Dalla Puglia si guarda all’Azerbaigian con una presa di coscienza forte a articolata e con una totale solidarietà con i vicini greci, i primi a essersi mobilitati contro il progetto che dovrebbe attraversare la zona più fertile del paese.

Da entrambi i report pubblicati di recente da Re:Common emerge quanta corruzione sia associata a questi grandi progetti. In Nigeria, nel progetto Castor a Valencia, nel GALSI tra Algeria e Sardegna…
Diverse indagini che riguardano questi progetti hanno portato alla luce un sistema incardinato sulle grandi opere funzionale a una ridistribuzione di ricchezza legata a logiche di partito, e a quello che la stessa Magistratura, come nel caso del MOSE a Venezia, definisce un sistema “di crimine organizzato”. Occorre sfatare il mito che la corruzione si trova solo nei paesi del Sud del mondo: i corruttori sono aziende europee, americane, russe… La storia si ripete ma è importante imparare, realizzare opere che servono davvero, magari su base ridotta, e che corrispondano al futuro che immaginiamo, che possano anche creare lavoro sui territori interessati. Non il lavoro del sistema delle grandi opere, cioè precario, sottopagato, in cui viene alimentato lo sfruttamento e il lavoro nero.
Il mercato del gas non è la risposta alla crisi del modello produttivo.
Assolutamente no, anzi, la costruzione di questo modello di mercato rischia di esacerbare la crisi, perché ci incastra in un sistema di dipendenza, convoglia le risorse pubbliche in opere che tra vent’anni non serviranno più. Il gas è una risorsa in esaurimento. E così mega opere costate miliardi saranno (o già sono) inutilizzate, e il loro costo scaricato sui cittadini.
Anche su base locale, a Trieste, è importante riflettere al di là del limitarsi a dire sì o no ai mega progetti che vengono proposti, e avviare piuttosto una discussione che riguardi realmente il futuro del territorio e il modello di sviluppo migliore per esso e la cittadinanza. Ognuno di noi dovrebbe mettersi di più in gioco, capire qual è l’orizzonte del cambiamento desiderato e attivarsi per realizzarlo.