Rumiz non lo presento, lo conoscete. Prima di riportare parte del nostro colloquio – imperniato sul suo ultimo libro, “La cotogna di Istanbul”, un racconto scritto che vuole essere orale (a provarlo è la scelta di scriverlo in endecasillabi e di averne fatto un audiolibro) – devo esplicitare due cose (che mi fanno iniziare dalla fine della nostra conversazione). La prima è il riscontro di un’importante ovvietà: Rumiz, già eravamo in strada per separarci, mi disse:“Le più bele cose le vien a microfono spento, quando xe tuti rilasadi”, e ciò è condivisibile e pienamente umano. La seconda è un po’ un indizio della sua personalità: appena usciti dal suo ufficio stava per dimenticarsi di chiuderlo e, nella ricerca delle chiavi, ha imprecato:“No go mai soportà le ciavi! Me sero fora de casa dieci giorni al mese”. Gli risposi che era “concettualmente positivo”, e ci capimmo.
E allora compagno, eccoci.
Innanzitutto, ti faccio i complimenti per il libro e soprattutto per il coraggio dimostrato, in quanto scrivere in endecasillabi è una cosa piuttosto coraggiosa… è mettersi un po’ in discussione. Ma perché neanche una rima?
[…] Allora, no, rima no; magari non so, verrà tra qualche anno, mah… perché se uno non ha molta pratica di verso, rischia di fare cantilena, invece abbinare il verso con la scioltezza del discorso normale vanifica questo pericolo.
Anche se ogni tanto cade nell’assonanza, e quello è piacevole.
Sì, sì, ogni tanto faccio delle assonanze, sicuro. […] La prima cosa fondamentale è che il verso è stato scelto perché assomiglia ai racconti del nonno ai bambini, o della nonna ai bambini; l’andatura, diciamo, la metrica del verso molto rotonda è stata riattivata in qualche modo dal mio viaggiare: a furia di sentire il ritmo sincopato dei treni e a furia di camminare o di muovermi in bicicletta, quella che è la naturalezza del nostro essere un animale versificante, diciamo, è venuta fuori. Questi versi nascono dal cammino – battito del cuore – respiro; e così, siccome volevo scrivere una cosa che fosse il più vicino possibile al racconto orale, è stato fatale arrivare a questo. Punto, questa è la spiegazione.
Naturale quasi.
Sì, sì. […] Ecco, potremmo parlare proprio di questa edizione/riscrittura completa che uscirà attraverso un audiolibro (che penso sarà nelle librerie a partire dai primi di maggio): per tanti motivi ho dovuto riscrivere questa cosa. Il primo motivo è perché mi sono oggettivamente reso conto che questa cosa era scritta, ed ero ancora un apprendista del verso: ho fatto una marea di errori, ci sono molti spigoli nell’andatura del racconto ma, dopo questi settemila versi, avevo ormai preso una certa pratica, per cui molti che avevo già scritto mi sono sembrati poco digeribili, per cui li ho ripuliti. Il secondo motivo è che in qualche modo non riuscivo a staccarmi da una cosa che mi aveva fatto vivere in modo straordinario: scrivere questo libro in versi mi ha dato una pace interiore che nessun libro precedente mi aveva dato, perché il verso è una cosa che l’uomo – non a caso i versi esistono da sempre – ha bisogno per vivere meglio, per dormire meglio, per ammalarsi di meno, per…
Come la musica.
Beh, la musica ha un valore terapeutico immenso, e quindi c’era questo, la difficoltà di staccarmi da un’opera che mi aveva fatto bene, che mi aveva fatto crescere anche, che mi aveva dato un bell’equilibrio: ero un po’ come la tela di Penelope, continuavo a farla per non dover dire che era finita. E poi il terzo motivo, molto più banale: siccome questo in realtà non è un libro scritto ma è un racconto orale travestito, come tutti i racconti orali è soggetto a modifiche continue… Io mi sono messo d’accordo con l’editore che nessuna edizione sarà uguale alla precedente, proprio per dare questo senso.
Ha acconsentito?
Sì. Dio, se non mi conoscessero da tanto tempo, mi avrebbero mandato in malora, ma, siccome sanno che ho un plotone di lettori affezionati, hanno accettato il rischio.
In questo audiolibro che uscirà, ci saranno anche delle musiche, mi sembra.
Sì, sarà diviso in due parti e avrà una vita completamente separata dal libro, anzi direi quasi che l’audiolibro è più importante del libro perché questo è un racconto che devi sentire oralmente, altrimenti non lo capisci fino in fondo. […] Sarà un audiolibro Feltrinelli diverso da quelli precedenti. Primo, perché sarà letto un testo molto diverso da quello del libro che è in originale. Secondo, perché sarà letto da due persone non da una, cioè Moni Ovadia e me. Terzo, perché avrà dei siparietti musicali non tratti da musiche già esistenti, ma composti apposta dalla Cotogna, anzi, generati dalla Cotogna, per mano del compositore triestino Alfredo Lacosegliaz. Queste musiche di separazione tra un capitolo e l’altro hanno generato a loro volta dei pezzi musicali completi che, e questa è l’ulteriore novità dell’audiolibro, avranno in allegato anche un cd con le musiche complete. Quindi ci saranno due cd, uno parlato e uno musicale. […] Dunque, la persona che canta di più, e che interpreta in modo assolutamente superlativo, direi difficilmente eguagliabile, è Ornella Serafini: è una che ha molta pratica con le musiche di Lacosegliaz, e poi ha anche capacità di interpretare l’anima slava molto bene. Poi ci sarà Vinicio Caposella, che ha fatto una specie di vaticinio monocorde sulla Cotogna, raccontando come la parola “sevdah” diventa “la nera bile” […], facendone, in sostanza, il periplo della parola.
Quello su cui Max [uno dei personaggi della storia] riflette.
Certo. Poi ci sarà una breve introduzione di Giuseppe Cederna. Il tema centrale della Cotogna, quindi la musica originale della Cotogna, sarà suonata assolo, senza nessun accompagnamento, da Mario Brunello, violoncellista. Ci sarà anche una piccola canzone turca che è la canzone dell’assenza, la stessa che chiude un po’ il libro, cantata […] da un’attrice turca in modo magnifico, anche questo senza accompagnamento. […] E’ stata un po’ una corsa, diciamo, di persone che, dopo aver letto il libro, hanno voluto in qualche modo esserci nella storia, come se fosse una, veramente, confraternita [riferimento a un fatto raccontato verso il finale della Cotogna], tra cui, per esempio, Federica Lotti, che […] si è “intromessa” in una delle più belle canzoni, La canzone di Affan, con l’ottavino e il flauto traverso. E poi ci sono altri musicisti che hanno suonato dentro. Insomma è un bel lavoro collettivo.
Ti blocco un attimo perché hai nominato Affan: lui dice una cosa, e voglio sapere se tu la condividi: “[…] c’era un’altra cosa ancora:/quella parola pomposa, “Europa”,/l’Occidente, che invece di capire/l’imbroglio nascosto dietro la guerra/a vista d’occhio si balcanizzava”.
Affan è un po’ il folletto della situazione. Ci sono parecchi personaggi che determinano degli snodi in questa storia, che è popolata di uomini attorno a una sola donna, alla fin fine. E Affan, questo pittore con una certa tendenza all’alcol che impastava le macerie ma anche le lingue, beh, dice una cosa che io ho sempre pensato insomma, cioè che di fronte alla Bosnia, lo dimostra anche l’ultimo, il caso del generale Divjak [di cui ha parlato recentemente (6 marzo) su <Il Piccolo>], non sa che pesci pigliare, non sa interpretare le cose, non sa distinguere, si muove in modo ipocrita e non capisce che è già infettata da quello che nei Balcani si è manifestato per primo. Quindi, non sapendo guardare i Balcani, non sa neanche guardare se stessa, proprio è automatico.
[…] Una cosa che devo dire è che il 24 [marzo] esce un altro libro mio che si chiama Il bene ostinato [Feltrinelli]. È un libro su i medici italiani in Africa, e me ne sono occupato per due mesi l’anno scorso, così, in vari intervalli del mio lavoro normale. Mi sono occupato di una organizzazione non governativa religiosa, di Padova: mi ha letteralmente folgorato come approccio, efficienza, umanità e continuità nel lavoro: cioè questi sono da sessant’anni sulla breccia senza fare una piega. E mi hanno veramente conquistato: mi hanno cercato per vedere se si poteva scrivere di loro. Io mi son trovato di fronte a un mondo unico, che è il mondo, il grande, grandissimo mondo del volontariato italiano, di cui si parla troppo poco… ma con in più un quadro organizzativo da far invidia a qualsiasi ministero di questa Italietta allo sfascio. Più volte, lavorando con questa gente, ho avuto la sensazione che se venissero messi loro al posto del Ministero degli Esteri o della Sanità, l’Italia funzionerebbe a un’altra velocità. Ma quello che mi ha incuriosito di più è stato constatare che le forze più partecipi in questa sfida vengono dagli stessi luoghi dove è più forte la chiusura leghista, soprattutto verso gli stranieri. Quindi, ne è venuto fuori la mappa di un’Italia in cui convivono negli stessi luoghi, se non nelle stesse famiglie, talvolta anche nella stessa persona, l’altruismo più illuminato e la chiusura più becera. Qual è, che mistero c’è dietro a tutto questo?
La cura è nella malattia.
In parte, sì, in parte sì. […]
Un ultima cosa ti chiedo, che magari è la più banale ma interessante: la genesi della storia saranno, immagino, i tuoi viaggi…
Di questa storia c’è chiaramente la conoscenza con una donna, che ho conosciuto, che mi ha cantato la canzone e poi è morta, e nel giorno in cui è morta io l’ho sentita – ero a Istanbul – e un venditore di cotogne mi è venuto incontro con questo alberello di frutti gialli, che è stata una cosa… una coincidenza, se possiamo chiamarla così, pazzesca, che poi non ho avuto pace. Proprio lì ho cominciato a raccontare questa storia perché mi sembrava così incredibile… ma a furia di raccontarla si è arricchita di un bel po’ di dettagli. Ti faccio sentir qualcosa, dai.
[Il privilegio che ho avuto nell’ascoltare alcuni brani con lui può essere parzialmente distribuito considerando che saranno gli stessi che troverete nell’audiolibro di prossima uscita]
Riccardo Redivo
[Da Konrad n° 165, aprile 2011]