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“Flow – Un mondo da salvare”. Fata sunt communia

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Ad agosto le sale cinema stanno ancora mettendo in piedi la programmazione autunnale. Nel frattempo le arene estive, ristoro cittadino per cinefili claustrofobici, possono rivelarsi un prezioso richiamo per chi durante l’anno ha perso titoli importanti. Attenzione, dunque, perché molte arene stanno riproponendo in questi giorni un’opera che merita di essere recuperata: Flow – Un mondo da salvare. Questa coproduzione tra Belgio, Lettonia e Francia, distribuita in Italia da Teodora Film è uscita nelle sale a novembre 2024. E subito il film del regista lettone GintsZilbalodis ha conquistato la critica internazionale, arrivando a vincere l’Oscar come miglior film d’animazione — il primo in assoluto per una produzione lettone — oltre a ottenere riconoscimenti di peso come il Golden Globe, i César, gli SpiritAwards, i Lumière Awards, senza contare le numerose candidature a BAFTA, European Film Awards, Critics Choice e Goya.

Per vederlo, io stessa lo scorso inverno mi sono avventurata in un giorno di pioggia in un multisala dall’altra parte della città, speranzosa di trovarmi di fronte a un’opera fuori dal comune. Non mi sbagliavo: Flow è un film che dice tante cose, ma non ha bisogno di parole. Questo film è un’esperienza visiva e sensorialeche si affida al potere delle immagini, con un’animazione 3D dal sapore artigianale. Le ipnotiche musiche sono composte dallo stesso giovane regista insieme al compositore e percussionistalettone Rihards Zalupe. Il risultato è un racconto capace di arrivare con potenza a un pubblico intergenerazionale.

Il protagonista è un gattino nero, notoriamente per indole curioso e indipendente, costretto a misurarsi con una delle sue più ancestrali paure: l’acqua. Tanta acqua. Una marea planetaria hainfatti inondato quasi tutte le terre emerse, e il tenero felino, saltando da un masso all’altro, passando per vette e frammenti di statue e templi che parlano – non a caso – di antiche civiltà estinte, cerca rifugio da un mondo che affonda sotto i suoi occhi. All’inizio del viaggio, il micio intravede una figura umana dietro una finestra: il fugace incontro sembra però preferire al punto di vista dell’uomo — dopo tutto responsabile ultimo dell’apocalisse — quello degli animali, che nel film diventano i veri custodi di una speranza futura.

Nel suo percorso, il gatto approda su un’imbarcazione alla deriva che man mano raccoglie altri animali in fuga: un rumoroso labrador, un pigro capibara, un giocoso lemure e un enigmatico grande airone. 

Insieme, questi compagni di avventura, costretti dagli eventi alla convivenza, imparano ad apprezzare il modesto mezzo che li costringe in uno spazio necessariamente da dividere. Imparano a trasformare l’egoista istinto di sopravvivenza in capacità di collaborazione, a fidarsi degli altri e a far sì che gli altri si affidino a sé.

Ognuno di questi compagni porta con sé un tratto che richiama vizi e virtù dell’essere umano: il labrador, con il suo entusiasmo caotico e l’esuberanza a tratti eccessiva; il capibara, con la sua sonnolenta lentezza e la tendenza all’indolenza; il lemure, giocherellone e superficiale, che ricorda un’umanità distratta, che affronta il disastro con leggerezza inconsapevole. E poi c’è l’airone, il potenziale predatore che verso la fine del film, quando ci si accorge che non c’è posto per tutti nella barca danneggiata dalle intemperie, si trasforma, in un gesto estremo di sacrificio, nel più coraggioso tra i viaggiatori: il grande uccello è “assunto” in cielo in una scena che abbandona per un attimo il registro fantasy per toccare corde spirituali. Col riferimento metafisico, la scena vuole elevare il tono del film, lanciando un monito silenzioso e un po’ mistico (come del resto la barca stessa non può che evocare l’Arca di Noè: fragile contenitore di vite, sospeso tra catastrofe e rinascita).

L’acqua è ovunque: in cascate improvvise, in fiumi sterminati, in oceani che sembrano infiniti. È difficile non leggere nella costantedell’acqua, metafora per antonomasia della vita, anche riferimenti all’imprevedibilità, all’impalpabilità e all’ingovernabilità del cammino. Tuttavia, l’acqua impone anche la riflessione: non solo riesce a farci vedere da fuori, riflessi nello specchio marino, ma ci invita a ripensare alle nostre azioni e a ragionare su un futuro che ora appare minaccioso e ora si rivela salvifico. L’acqua in Flownon è dunque solo uno sfondo, ma è un altro personaggio: mutevole, onnipresente, indifferente e allo stesso tempo potente generatore di nuove possibilità.

Le musiche che accompagnano la narrazione sono epiche, ipnotiche, meditative. Il tratto visivo del film è essenziale e rigoroso, e il suo linguaggio, così limpido da amplificare la forza simbolica della vicenda, evoca la purezza di un videogioco indipendente e omaggia la tradizione dell’animazione europea.

Centrale è il tono con cui Zilbalodis sceglie di raccontare la catastrofe, senza proclami o allarmismi. La scomparsa dell’umanità, che pure ben si intuisce dietro le rovine sommersedall’inarrestabile marea, non viene mai gridata. È lo sfondo impersonale sul quale si muove la piccola comunità di animali. L’umanità assente è una presenza muta che ricorda affattobanalmente i rischi del cambiamento climatico e che non manca dirivelare anche una parabola luminosa. Flow diventa così ancheun’ode alla cooperazione e alla solidarietà, invita a riconoscere che la salvezza non è mai individuale, ma condivisa, collettiva, comune.

Irene Tartaglia

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