Si è parlato di Fulvio Tomizza come di uno scrittore di frontiera: scrittore degli esodi, dei campi di raccolta e delle lacerazioni ricomporre; di un uomo, prima ancora forse di uno scrittore, che ha dovuto affidarsi alla sua grande capacità di comprensione e di tolleranza per cercare di avviare un difficile, ma quanto fervido!, dialogo di pacificazione là dove inevitabilmente stava sempre per divampare l’odio reciproco per l’intransigenza cieca e pervicace delle diverse identità a confronto.
Amava dirsi «scrittore per caso», spinto dalla necessità di narrare fatti crudeli vissuti sulla propria pelle sforzandosi di ricostruire il dramma della sua terra, l’Istria, imparando dalla sua storia personale che dalla sofferenza deve nascere la comprensione e la tolleranza.
«Guai – diceva – alla vendetta o alla rivalsa»; e aggiungeva: «Dal dolore e dall’ingiustizia deve nascere il senso della giustizia profonda, proprio per non averla avuta. Dal di dentro di ciascuno di noi deve nascere».
Bambino negli anni del nazifascismo, adolescente di fronte alle persecuzioni ingiustificate contro il padre, studente irrimediabilmente lacerato fra una Trieste che lo giudico slavo e un Istria che lo considero traditore, Fulvio Tomizza avrebbe potuto esasperare dentro di sé malanimo e irriducibili rancori.
Al contrario egli si sentiva figlio della dolorosa complessità di un mondo in bilico tra etnie diverse. Con umiltà si sentiva chiamato a saldare la sua molteplicità di frontiera sia sul piano morale sia su quello letterario centrando nel suo luogo natio l’ago di una bilancia che egli si sforzava di tenere in equilibrio per coniugare in un sogno di serena e collaborativa convivenza l’interscambiabilità di una doppia appartenenza: al paese di origine e alla città mediterranea, a una terra contadina di forti radicamenti, e a una Trieste, borghese, scalo di partenze e di arrivi, quasi imprendibile.
Me era un sogno destinato a non realizzarsi mai. Infatti spesso lo scrittore aveva dichiarato in interviste o confessato agli amici di essersi «sentito sempre esule, ospite»; diceva: «Ho sempre avuto paura di disturbare». Forse per questo una voce come la sua così internazionale è riuscita a restare tanto solitaria in Italia. Anche perché Tomizza non ha mai partecipato al chiasso della letteratura-spettacolo: egli doveva scrivere ciò che gli stava a cuore a costo di raccontare storie scomode vissute da protagonisti «senza qualità» ma pur sempre di grande spessore per umanità e intimo sentire.
Storie incise sui fogli con l’affettuosa ostinazione che ogni buon artigiano (e tale si considerava Tomizza, chiamato a rendere un «servizio» di utilità collettiva) pone nel mestiere per dare splendore al proprio lavoro fatto di sapienza, umiltà e dedizione; per questo lo scrittore aveva bisogno di un suo luogo discreto quasi dimesso; sceglieva allora il suo borgo.
Materada, una casetta di pietra che dava su campi e prati, senza telefono, lontano dai clamori attento all’ascolto dell’onesta voce della sua coscienza.
Oggi Tomizza non è più con noi, il mondo da quando ci ha lasciato ha sofferto vicende di sconvolgente dolore e non passa giorno che il terrore non esploda pretendendo il suo esoso tributo sangue da vittime incolpevoli, innocenti.
Efferato consumismo, miseria, razzismo, intolleranza sono i cavalieri dell’Apocalisse pronti a far precipitare l’umanità nel macabro vortice dell’autodistruzione. Viene da chiedersi come avrebbe reagito Tomizza a tutto questo, cosa ne avrebbe scritto?
È da credere che la sua coscienza gli avrebbe imposto certamente di scriverne e di parlarne, e, avendolo conosciuto, vien da pensare che lo avrebbe fatto da istriano: pacatamente, con mestizia, in sordina, con quella sua proverbiale consapevolezza che l’essere umano è sempre fragile e limitato nel suo agire quotidiano e nel suo pensiero.
Da questa profonda conoscenza della natura umana e dalla sincerità verso se stesso nasceva la sua espressività, la sua vena letteraria che si rivolgeva incessantemente alla storia ignorata, vilipesa e confinata ai margini di ben precise individualità che sole sapevano parlare alla sua sensibilità di uomo e di scrittore.
Proprio per questa speciale caratura nell’approccio alla storia – di uomini semplici che solo anelano a un mondo di pace – oggi Tomizza sarebbe stato uno dei miglior interlocutori con cui discutere delle contraddizioni globali che sconcertano il mondo attuale ed anche delle ingiustizie politiche, economiche e sociali che appunto non marcano di provocare odio, vendetta, violenza, fame e sfruttamento.
Ma se è ben vero che la storia è sempre stata uno dei punti cardine della narrazione di Tomizza, va detto che quella che di più lo interessato è stata sempre la storia della gente comune, degli umili. Spesso dei diseredati; la storia che gli ha dato modo di mettere a fuoco i caratteri umani più ricchi e intensi, più autentici e sofferti che animano i microcosmi multiculturali dell’Alto Adriatico: dall’Istria a Trieste, dal Friuli e dal Veneto alla Dalmazia.
Sempre cosciente della multiculturalità di queste terre di confine, della “bastardaggine” che nazionalismi hanno sempre rifiutato, tentato di nascondere, di cancellare, se non addirittura e peggio, enfatizzando la voglia di identità, di esasperarla in insanabile confitto, Tomizza è stato l’assiduo cultore di una visione complessa dei rapporti storici, umani e sociali, l’esemplare tessitore di una riconciliazione che desse il colpo di spugna definitivo ai rimproveri e alle invettive, alle condanne inappellabili fondando nel riconoscimento delle diversità un progetto comune e concorde di crescita civile, morale.
Claudio Grisancich
Tratto da Konrad n. 133 Edizione febbraio 2008