Konrad
Buono come il pane Vini e cibi critici

Il pane d’antan di Marino Cerni

– di Simonetta Lorigliola –

Trieste. A due passi dal Viale, un piccolo e prezioso archivio in azione di sapori e profumi da salvare.

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Esperienza di memoria del futuro. Raggiungi il Viale. Cammina questa rambla triestina. Sognala ad occhi aperti tutta liberata dalle auto, restituita ai camminanti e ai ciclisti, fino all’ahimè horribilis Giulia. Si vocifera che il progetto esista e giaccia in qualche cassetto delle pubbliche amministrazioni. Sarà? Fermiamoci prima. Al civico 35 vola in alto lo sguardo, sulle donne-immensità dell’imponente facciata liberty di palazzo Sommaruga. Sospiro, rivolto ad una città più sostenibile e meno “smoggata”. Procedi qualche metro e fai una piccolissima deviazione, prendi a destra la salita di via Gatteri. Tra il secondo ed il terzo isolato, due imperdibili luoghi triestini. Al 17 lo studio del maestro Ugo Borsatti, e i suoi unici sguardi fotografici sulla città. Un inchino a lui è doveroso. Al 39 c’è la panetteria di Marino Cerni. Due luoghi della memoria e del futuro, testimoni diversi e complementari della cultura di questa città.

 

Mio padre era fornaio. La prima volta che mi ha portato con lui al lavoro era il 1953. Mi ricordo l’odore del pane. Mi è rimasto dentro, quel profumo. Avevo due anni. Si può dire che mi sento figlio d’arte. Nel panificio di Marino Cerni si diffonde oggi probabilmente quello stesso profumo, che entrando cattura l’attenzione. Il laboratorio dalla luce calda, è pulito ed ordinato. Comunica con il piccolo panificio, curato con l’amore che si ha per una casa. Qui aleggia uno spirito d’antan. Parola francese, ormai entrata nei dizionari italiani, che indica perfettamente lo stile di questo luogo e di questo pane. Quello di un tempo. Non una cosa vecchia (sarebbe agèe) e trapassata. Non ciò che fu, ma il presente e anche il futuro. Uno stile in cui contano semplicità, autenticità e trasparenza.

La mia famiglia era di Capodistria, mio padre era fornaio là. Poi ci siamo trasferiti a Muggia.

foto l. monasta
foto l. monasta

Anche io e mio fratello facevamo lo stesso mestiere, prima da apprendisti e da lavoranti. Nel 1973 siamo venuti  in via Crispi, tutti tre. (auguri! Nel 2013 è il 40°!) Lavoravamo molto, sui 350 kg di farina al giorno, circa 500 kg di pane. Per le navi. E poi avevamo un gran giro di clienti. Piano piano le navi sono andate, ed è cambiato il sistema di fare la spesa. Si è diffusa la Grande Distribuzione. I piccoli negozi qui intorno hanno chiuso. E il giro si è ridotto. Oggi facciamo sui 90 chili di pane al giorno. Marino, cosa dice del pane dei supermercati? Io non lo mangio. I miglioratori, roba chimica, danno un bel pan leggero. Ma mangialo alla sera, e vedi. E’ di cartone. E poi non va bene per tirare su il sugo. Non è per i miei gusti. Ma ognuno è libero di fare quello che vuole.E il suo invece? La cosa di base è la farina buona. Buona, per me, significa senza additivi. E poi che non sia  umida. Che abbia la giusta “forza”. Cerco, quindi, molini affidabili. I miei fornitori sono Lendinara e Molini Pordenone. Da parecchi anni aggiungo una piccola quantità di farina manitoba, che viene dal Canada. Non è un po’ troppo lontano? E la produzione italiana? Negli ultimi 40 anni in Italia sono diminuiti i produttori ma chi produce ha selezionato varietà sempre più produttive; il risultato è un grano con maggior contenuto di glutine che dà farine deboli, poco adatte alla panificazione. Questo resta un aspetto che ci impegniamo ad approfondire.

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Marino, ci descrive come fa il pane? Verso le 10 del mattino con la farina e l’acqua preparo la mia pasta madre che lievita fino alle 2-3 di notte. Arrivo e aggiungo un po’ di lievito secco, il malto liquido, il sale (3%), pochissimo zucchero. Poi aggiungo eventuali altri ingredienti (olio extravergine di oliva, zucca, semi etc.). Riposa per 20 minuti. Si fanno le forme. Quando sono lievitate del doppio, vanno in forno. Il mio è a gas e non lo cambierei con uno elettrico perché il pane muterebbe gusto. C’è da aggiungere che qui si fa quasi tutto a mano. Le bighe, classiche, morbide, tonde. Carciofi, a forma di fiore. Gli splendidi ferraresi, annodati minuziosamente uno ad uno. E ancora le rosette, uniche: vengono spezzate a mano e modellate una per una con un vecchissimo stampo, oggetto cult-vintage. Sono le vere rosette asburgiche, dice Marino. È bellissimo rigirarsele tra le mani e osservare che ognuna è un pezzo unico. Puro lavoro artigianale. L’assaggio di questa morbida e saporosa rosetta, che è fatta solo con olio extravergine di oliva, completa la sua bellezza. E poi ci sono, a proposito di stile d’antan, gli stampi di legno, arrotondati dall’uso, piccoli per far lievitare le bighe, più grandi per le struzze – li chiamano “cimbarle” (probabilmente da zimber, legno in tedesco), pezzi più unici che rari. Come la sue putizza. Raramente se ne assaggiano così buone. Morbida, dal gusto non eccessivamente dolce, in cui dominano le noci e una nota agrumata sfumata. Una putizza come dev’essere.

Gianna, un papà di origine pugliese, ha sposato Marino e l’ha affiancato da subito. Non mangiavo pane, non mi andava. E ho spostato un panettiere. Avete figli, Marino? Tre. Ma non li abbiamo coinvolti. Io alle 3 del mattino sono qui, ogni giorno, sabato compreso. Noi abitiamo a Muggia, e quando vengo a lavorare qualche volta mi ferma la polizia o i carabinieri e mi tocca fare il palloncino. La sorella Annamaria ha cominciato nel 1980 Lavoravo in laboratorio. Ero una fornaia. L’ho fatto per qualche anno. Ma ho due figlie. Non era compatibile. 

foto l. monasta
foto l. monasta

C’è anche la nipote Monica, che aiuta lo zio da 10 anni, viene qui alle 4 del mattino. Dó una mano, faccio quello che mi dice lo zio. Un bell’aiuto, signor Marino, no? Un aiuto e una compagnia. Pensiamo alle nere notti di inverno, con l’alba ancora lontana, magari con la bora che tira e capiamo come anche la compagnia sia davvero importante in questo difficile mestiere.

foto l. monasta
foto l. monasta

Oggi il lavoro è molto calato, il guadagno anche, gli anni passano ma voi siete qua. Perché continuate in modo quasi ostinato? A Gianna, scappa una lacrima. Poi dice Qui c’è una storia. Questo posto fa parte di noi. Il fatto di fare le cose solo in un certo modo. Tutte le cose. Anche questo piccolo restauro non tecnologico, genuino, fatto da noi. Questo è il nostro stile. E poi dobbiamo anche lavorare per la pensione. Marino, risponde per ultimo, con il suo stare in disparte, il suo parlare a voce bassa. Colpisce la grande semplicità di questo vero panettiere che ha tanta esperienza, tanto da dire, tanto sapere da trasmettere ma non sbandiera nulla. Perché siamo ancora qui? Beh, c’è la baracca da tenere su. Pausa, poi riprende Ma la baracca senza passione non sta in piedi. Non sta. Ho dato la vita qui. La cosa più importante è la passione. Con la passione si crea, si fa. Senza non si va da nessuna parte. Gianna chiede se può aggiungere una cosa La voglio dire perché per me è importante. Per noi qui conta molto la relazione. Ci piace parlare con le persone. Ci conosciamo. Se un anziano ha l’influenza e chiama, il pane glielo portiamo a casa, anche se è solo una s’ciopeta. E magari già che ci siamo gli buttiamo l’immondizia. Il loro mestiere è anche questo, vivere le relazioni. E quale simbolo millenario di relazione può essere migliore del pane?

Simonetta Lorigliola

 

foto l. monasta
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