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Il valore del multiculturalismo e la paura della sostituzione etnica

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Per sua natura l’homo sapiens non è mai rimasto fermo in un punto, come invece gli alberi o le montagne: si è spostato esplorando il territorio, cercando condizioni migliori di vita per la sua sopravvivenza. Questo lo ha portato nel corso dei millenni a incontrare altri sapiens lungo il percorso, a incrociare nuovi saperi, a creare nuovi alfabeti e linguaggi, nuovi culti talvolta anche facendosi la guerra l’un l’altro. Vennero a crearsi gruppi sociali, man mano più grandi e stanziali. Questa è grosso modo l’evoluzione della nostra specie, sin dai tempi in cui il concetto di “nazione” doveva ancora essere inventato. Poi c’è stata anche la pagina nera del colonialismo europeo nei confronti dei paesi africani, orientali e americani, in cui con la violenza sono state deturpate popolazioni autoctone e risorse ambientali. Noi abitanti del terzo millennio siamo il frutto di questa “contaminazione”. Ma c’è chi oggi parla di “identità italiana” e teme la famigerata “sostituzione etnica”.
Ma si può davvero sostituire un’etnia con un’altra? Per capirlo innanzitutto bisogna partire dal principio, dal concetto di etnia. Treccani definisce etnìa: «secondo l’etnologia e antropologia, un aggruppamento umano basato su caratteri culturali e linguistici». Di solito è un termine utilizzato per indicare una “minoranza”. Non è considerato dunque nemmeno l’elemento geografico. Può dunque una nazione, come ad esempio l’Italia, definirsi un’etnìa? Assolutamente no! Nemmeno una piccola regione come il Friuli Venezia Giulia, con i suoi diversi dialetti e tradizioni culturali può farlo. Peculiarità che d’altra parte vengono valorizzate e preservate anche in ottica turistica.
Lungi dal poter trattare in maniera esaustiva un argomento così complesso in questa sede, proviamo a riflettere sul nostro “microcosmo”. Pensiamo un attimo alle origini di Aquileia nel 181 a. C. come avamposto orientale di Roma, che fece proprio dell’essere crocevia di popoli e culture, grazie agli scambi commerciali soprattutto, la sua fortuna, tanto da raggiungere secondo alcune fonti i 50.000 abitanti, divenendo la nona città più grande dell’Impero. Parimenti Trieste, sorta come città emporio già in epoca romana ma sviluppatasi soprattutto dal XVIII secolo in poi come Porto Franco e con le politiche commerciali di Carlo VI e Maria Teresa d’Austria: greci, serbi, armeni, ebrei e molte altre comunità scelsero in migliaia di vivere a Trieste. La realizzazione del Canal Grande e di tutti i palazzi che lo circondano costituiscono un bel colpo d’occhio di questo meltinpot (o crogiolo, a dir si voglia) che si riflette nelle abitazioni e nelle chiese dedicate a diversi culti. Per non parlare della comunità slovena, al tempo residente per lo più in Carso e nel Breg, che ha sempre avuto un’importanza culturale notevole anche in città – tanto da esser presa di mira dagli squadristi nel 1920 che come primo atto dimostrativo della “supremazia italica” incendiarono il Narodni Dom e l’Hotel Balkan.
Non sono forse un privilegio tutti questi collegamenti con il mondo, l’intreccio di saperi, culture e linguaggi giunti fino a noi? A Trieste non è avvenuta nel tempo nessuna “sostituzione etnica” bensì una contaminazione magnifica che l’ha resa attrattiva e ricca, grazie soprattutto all’integrazione: non sempre facile, o perfetta, ma necessaria. I retaggi della “purezza della razza” (che non esiste e non è mai esistita) che restino pure confinati al ventennio del secolo scorso.

Eleonora Molea

Tratto da Konrad 241 di aprile 2025

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