La lunga e calda estate dell’acqua
Una risorsa pubblica da difendere dai predatori del mercato
di Lino Santoro
Nel 2000 l’Unione Europea ha adottato la direttiva quadro sulle acque. Nel 2010 all’Assemblea generale dell’ONU è stata votata la risoluzione The human right to water and sanitation: acqua come diritto fondamentale e sociale. Nel 2014 il Comitato internazionale per il contratto mondiale dell’acqua ha raccolto nei paesi della UE 1,6 milioni di firme con la petizione Right2Water per affermare che l’acqua è un bene comune non assoggettabile alla logica di mercato.
Il Piano per la salvaguardia delle risorse idriche europee vuole contabilizzarle per mitigare gli impatti e per l’adattamento di fronte alla riduzione della disponibilità causata dai cambiamenti climatici in corso. Con fenomeni atmosferici più intensi aumenta il rischio di alluvioni ma eventi estremi implicano anche lunghi periodi di siccità: nella logica dell’adattamento saranno necessari invasi di piccole e medie dimensioni, distribuiti sul territorio per la raccolta dell’acqua in eccesso, e impianti di desalinizzazione lungo la costa per recuperare l’acqua marina a usi irrigui o industriali, e per compensare l’intrusione del mare nelle falde litorali.
Nella Giornata mondiale dell’acqua l’ISTAT ha presentato il Focus 2017: da una serie di elaborazioni statistiche sui consumi risulta che i maggiori prelievi sono effettuati dalle attività agricole e dalla zootecnia (50%), il 18% è rappresentato dai consumi dell’industria, il 5% dalla produzione termoelettrica, mentre meno del 30% è per usi civili. A livello mondiale 80% delle risorse sono consumate per l’irrigazione, il 15% per l’industria e il 5% per gli usi civili. La distribuzione dell’acqua potabile sul territorio nazionale è caratterizzata da una perdita media lungo la rete degli acquedotti del 38%, con punte del 50% (a Trieste è di oltre il 40%).
Un disastroso quadro che deriva dall’affidamento della gestione del servizio idrico integrato a società private o a società per azioni miste pubblico/private: i profitti ricavati dalle tariffe vengono indirizzati alla distribuzione di dividendi agli azionisti invece di essere investiti nell’ammodernamento della rete. Nella logica di mercato rientra il loro progressivo aumento negli ultimi 10 anni ha toccato picchi di oltre il 100% in alcune realtà locali (Pordenone 110%, Gorizia 80%, Trieste 70%, Udine 70%).
L’Autorità per l’Energia Elettrica il Gas e il Sistema Idrico ha elaborato un complesso algoritmo per il calcolo della tariffa, costituita da una quota fissa e da quote variabili per i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione, funzionali alle caratteristiche degli impianti e ai costi d’investimento. I costi più bassi sono per i consumi agricoli. Canoni annui di 20-70€/ettaro in concessione e di 0,30-2€/metro cubo sono pagati dalle società che sfruttano circa 13 milioni di metri cubi/anno dalle sorgenti di acque minerali. Di 0,01€/metro cubo è invece il canone che le multinazionali delle bibite gassate pagano per l’estrazione di acqua da falde e da pozzi.
Per sottrarre l’acqua alle leggi di mercato (Hera ha incrementato i ricavi a 2,7 miliardi con una crescita del 10% rispetto al 2016) e per rendere più efficiente l’uso della risorsa è in corso nel mondo il ritorno alla gestione completamente pubblica. Con la grande mobilitazione del Referendum del 2011 si è tentato di seguire anche in Italia questo percorso. Il testo aggiornato della Legge d’iniziativa popolare proposto dal Forum italiano dei Movimenti per l’Acqua, arrivato nel 2014 in Parlamento, è stato snaturato alla Camera ed è ancora parcheggiato in Senato. Il recente Decreto Madia è indirizzato invece verso l’affidamento dell’acqua al mercato (la gestione pubblica è possibile ma ostacolata dalle procedure). Una scelta in contraddizione con la crisi idrica originata dal riscaldamento globale, aggravata dalla gestione mercantile della risorsa, dai disboscamenti, dal consumo di suolo, da una agricoltura forte consumatrice di acqua.