– di Riccardo Redivo –
Intervista a Dario Parisini, Presidente di Interland
Chi siete, che fate e perché lo fate?
Interland – Consorzio per l’integrazione e il lavoro – è una cooperativa sociale di Trieste con 14 soci, cooperative sociali. La nostra finalità è la promozione umana e l’integrazione sociale dei cittadini. Sosteniamo lo sviluppo dei nostri soci e cerchiamo di creare un pool di cooperative che sia efficace nel presentarsi. Il Consorzio fa da apripista: la tematica dell’agricoltura sociale è una delle piste su cui dal 2012 stiamo lavorando. Cerchiamo ambiti d’intervento innovativi in cui sperimentare un modo di essere impresa, tenendo conto della nostra storia: il valore fondamentale della cooperazione sociale è aver dimostrato che è possibile fare impresa orientando le proprie attività per una finalità d’interesse generale.
Verso un benessere sociale.
Sì. Purtroppo nel tempo molti hanno trasformato il loro essere impresa sociale in un’impresa che lavora nel sociale: grandi cooperative gestiscono appalti ovunque, ma ripropongono le dinamiche classiche.
E lì si ha la soddisfazione vera.
Sì, ma non è semplice perché ci sono soddisfazioni e ricadute. Il lavoro è una parte importante dell’integrazione di queste persone, ma non è l’unico. Bisogna vedere il contesto in cui la persona vive, e molto si gioca nel rapporto con l’ente pubblico che segnala o ha in carico le persone. Un quadro complesso.
Nell’atto pratico, come funziona, come si concretizza l’agricoltura sociale?
Per Trieste è un’esperienza nuova. In Regione, anche per la conformazione fisica del territorio, l’agricoltura di per sé è già più sviluppata e di conseguenza anche l’agricoltura sociale ha qualche anno di storia alle spalle. A Trieste è l’anno zero: le cosiddette fattorie sociali non esistono, ci sono solo alcune fattorie didattiche, aziende agricole che accolgono scuole per mostrare come funzionano.
Ci sono gli orti condivisi.
Queste esperienze stanno nello sviluppo di una cultura nuova uomo-terra. Ma l’agricoltura sociale riguarda l’agricoltura come attività produttive, percorsi d’inserimento lavorativo o di tipo terapeutico-riabilitativo. Finora abbiamo cercato di coagulare attorno all’agricoltura sociale i soggetti potenzialmente interessati. Ora stiamo facendo una ricerca, quasi pronta, sulla sua potenzialità di sviluppo in provincia di Trieste. Negli anni Sessanta la città, dal punto di vista alimentare era autonoma: 300.000 persone mangiavano con i prodotti che venivano dal circondario, dall’Isontino e dalla Slovenia.
Era naturalmente a chilometro zero.
Sì. Oggi siamo all’opposto: si va al supermercato. Nel frattempo abbiamo “mangiato” territorio col cemento ed urbanizzato molto: non torneremo indietro, però un margine di crescita c’è. Siamo impegnati a intercettare qual è questo margine. E in quel margine vorremmo far vivere l’agricoltura sociale. La prima cosa che abbiamo fatto è stata quella di bussare alla porta di istituzioni pubbliche, aziende agricole, associazioni di volontariato, cooperative sociali, per dire: Ci state? Abbiamo trovato molto interesse. Abbiamo anche avviato una ricerca per verificare la sostenibilità dell’agricoltura sociale nel territorio triestino: quante aziende agricole ci sono e se sono disponibili a mettersi in gioco su questo tema. Abbiamo incontrato una trentina di aziende, ne abbiamo fatto i profili, chiedendo la loro disponibilità e abbiamo trovato alta adesione.
In questo anno e mezzo, quindi, avete cercato di diffondere il tema.
Sì. Abbiamo fatto un percorso importante di sensibilizzazione, e lo abbiamo ricondotto al Forum dell’Agricoltura Sociale (http://agricolturasocialetrieste.blogspot.it), un luogo di discussione ma anche di promozione di prodotti e servizi che le singole realtà, cooperative o aziende agricole, possono offrire. Cercheremo anche di far crescere soggetti nuovi, però vorremmo contaminare il contesto economico e produttivo normale.
E la lotta più difficile, qual è? Dove si cade spesso?
Essendo un processo lungo, impegnativo, c’è un po’ di sfilacciamento: tutti vorrebbero subito i risultati, invece bisogna avere pazienza, la stessa che ha il contadino quando semina: deve rispettare i tempi di maturazione del seme. Poi c’è l’aspetto culturale: qui ogni soggetto (l’istituzione pubblica da una parte, le società del terzo settore e le imprese dall’altra) deve assumere un modo di pensare riferito a questo sviluppo, non arroccarsi sulle proprie competenze (e forse sui propri pregiudizi), ma cercare di spaccare quest’ottica e avere la capacità di integrarsi con gli altri.
E all’orizzonte? Quando pensate di toccare la terra e di sporcarvi?
Nel 2014 vorremmo sporcaci le mani e mettere in piedi iniziative concrete. Ci aiutano, oltre che la cornice istituzionale dei Piani di Zona, alcune risorse: per la prima volta l’Azienda Sanitaria Triestina ha ricevuto circa 20.000 euro dalla Regione per attivare prime sperimentazioni ed ha individuato noi come soggetto che promuoverà questi progetti.
Desiderio massimo, oltre alla pace nel mondo?
Sarebbe quello di arrivare alla fine del 2014 con una o due iniziative concrete avviate. E magari anche qualche inserimento, con borsa lavoro, in alcune aziende agricole. Un primo risultato lo abbiamo avuto con un ragazzo disabile inserito in un contesto lavorativo: i suoi datori di lavoro hanno dichiarato che l’esperienza è stata molto positiva. Queste piccole cose danno il segno del cambiamento: sentire un imprenditore che fa quest’esperienza e alla fine dice di aver scoperto che c’era solo tanto pregiudizio, è come far cadere un velo.
Un aiuto in più per credere alla sensibilità di Dario Parisini e al suo lavoro potrebbe essere quello di sapere che è anche poeta: un anno fa è uscito, per Hammerle editori, il suo Sensi inversi, in dialetto triestino.
Riccardo Redivo