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L’isola di plastica nel Carso. Una problematica tanto trascurata quanto grave
Ambiente Natura e biodiversità

L’isola di plastica nel Carso. Una problematica tanto trascurata quanto grave

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Quando ci si immerge nel verde dei boschi triestini, non è difficile cogliere la ricchezza della biodiversità della flora e fauna presenti. Tra pini neri, ginepri, cespi di sommacco e cipollacci azzurri, si sta diffondendo una nuova specie, il vestitŭs vestitūs, della famiglia delle vestis, ovvero nient’altro che… vestiti.

La posizione di Trieste la rende tappa finale della rotta balcanica migratoria. Centinaia di richiedenti asilo giungono ogni mese ai confini tra l’Italia e la Slovenia, dopo un lungo ed estenuante viaggio trascorso tra le alte montagne dei Balcani e le estese pianure croate, in cerca di pace e sicurezza. Dietro di sé si portano dei vestiti di ricambio ed ecco che all’ingresso con l’Italia diventano persone nuove, tentando di lasciare indietro i brutti ricordi di quel viaggio, le persone perse nel tragitto, i passi sofferti nella neve fresca. Abbandonano gli abiti a terra e più smarriti di prima, ma pieni di speranza, cercano di farsi strada in quel nuovo mondo.

Purtroppo, però, ciò che viene lasciato tra l’erba non è né compostabile né biodegradabile. Globalmente la maggior parte dei vestiti è fatta di poliestere, un tessuto sintetico composto da fibre di plastica. Esattamente come le microplastiche negli oceani di cui si sente molto parlare, anche il poliestere dei vestiti tende a deteriorarsi col passare del tempo, rilasciando nel suolo sostanze nocive per l’ambiente. Disperdendosi, queste sostanze portano a una modificazione della struttura dei terreni, nonché all’alterazione dei cicli di fosforo e azoto, necessari all’equilibrio dell’ecosistema.

Questa problematica sembra attirare meno attenzione delle famose isole di plastica galleggianti nell’oceano, ma sta ricevendo gradualmente il giusto riconoscimento grazie a una serie di progetti inerenti. L’Europa, ad esempio, ha lanciato il progetto Bio-plastics Europe, con l’obiettivo di creare nuove plastiche biodegradabili mediante risorse rinnovabili. Anche la Cina si è ritrovata ad affrontare una sfida simile, colpita dalla cosiddetta white pollution. Questo “inquinamento bianco” è legato al settore agricolo: i grandi teli utilizzati nei campi per incrementarne l’efficienza (grazie alla conservazione dell’umidità della terra, l’aumento della temperatura e l’impedimento di crescita delle erbacce) sono fatti di plastica e nel deteriorarsi creano dei residui che, paradossalmente, rendono il terreno meno fertile e più inquinato.

Presto anche per il nostro suolo carsico si dovrà cercare rimedio a questo tipo di problematiche, se non troviamo al più presto una soluzione preventiva. Durante una sola spedizione del WWF nella località di Prebeneg al confine tra Italia e Slovenia, sono stati raccolti circa trecento sacchi pieni di indumenti, ma anche di oggettistica varia necessaria al viaggio. C’è chi sfrutterebbe la gravità della situazione inserendola in qualche malsana propaganda politica, sottolineando la necessità di fermare i flussi migratori e di rimandare indietro i richiedenti asilo. In quel caso, però, sarebbe altrettanto necessario ricordare come coloro che giungono alle nostre porte chiedendo aiuto, siano vittime della crisi socio-economica e climatica di cui i paesi industrializzati come il nostro hanno contribuito alla formazione. E allora i vestiti inquinanti di poliestere abbandonati nel bosco non sono più dovuti a un fattore esterno, bensì sono una nuova minaccia ambientale che noi stessi ci siamo inflitti e alla quale dovremmo prestare maggiore attenzione, se non vogliamo che gli equilibri dell’ecosistema carsico vengano alterati.

 

Jennifer Ferluga
WWF Trieste

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