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Raccontando… Anton Cechov

Il Monaco nero di Anton Cechov

Su Il monaco nero sono stati scritti saggi (in rete se ne trovano), non solo di carattere letterario – visto il peso qualitativo di tale opera – ma anche di matrice più strettamente clinica o psichiatrica, posto che il tema portante del racconto è quello della follia, della percezione distorta della realtà, delle costrizioni imposte da una quotidianità fatta di doveri, istituzioni, compromessi sociali e ciò che essi scatenano. Tanto per dire dove possa arrivare la letteratura.

Nessuna pretesa, quindi, di integrare in questa sede simili questioni, ma solo lo stupore di ammirare la sontuosa architettura di questa storia e le sue implicazioni.

Anton Cechov sviluppa il suo racconto sostanzialmente attorno a tre blocchi tematici: il primo (dopo un breve prologo che ritrae il maestro Kovrin, lo studioso e intellettuale protagonista, malato e bisognoso di aria pulita) è costituito dal frutteto di Egor Semenovic, dove Kovrin, dietro invito del proprietario e della di lui figlia Tanja, andrà a passare l’estate. Un frutteto maniacalmente curato da Egor Semenovic, e la cui importanza narrativa viene fin da subito sottolineata da Cechov con una lunga descrizione che ha lo scopo proprio di soffermare l’attenzione su un particolare che non potrà essere secondario. Il secondo blocco è costituito dal rapporto tra Kovrin e Tanja (un’affinità sentimentale che risale a molti anni prima), che a sua volta si interseca con quello tra loro e il padre di lei. L’ultimo blocco, naturalmente, è quello relativo al monaco del titolo, protagonista di una leggenda che dice di un monaco che da mille anni vaga sulla terra, a metà strada tra il miraggio e la visione.

Per buona parte della narrazione questi tre archi narrativi si muovono separati evolvendosi solo al loro interno: nel primo esploderà la maniacalità di Egor Semenovic nella cura del suo frutteto (che si tradurrà in una sorta di doppia natura del personaggio, una corrispondente al “vero” Semenovic, quando è appunto impegnato con il frutteto e con le sue prospettive, e una relativa all’”altro, il non vero”, quando il vecchio padre non si occupa di ciò che gli sta veramente a cuore, costretto dalle contingenze del quotidiano), nel secondo si consuma l’avvicinamento amoroso tra Kovrin e Tanja (favorito e incoraggiato da Semenovic), nel terzo si sviluppa l’incontro del monaco da parte di Kovrin (quest’ultimo sarà protagonista di una visione quasi mistica nel corso della quale imbastirà un dialogo col leggendario monaco – visione che diventerà consuetudine, nel tempo -, ricevendo da esso l’idea di essere destinato a grandi cose se solo lascerà fluire liberi i propri pensieri e le proprie inclinazioni poiché, secondo le parole del monaco, la vita “normale” lo ridurrà al livello di un uomo qualunque. E quindi infelice).

Le tre parti, a un certo punto, sembrano giungere a una loro autonoma (e positiva) maturazione, ma è qui che Cechov inizia a farle convergere l’una verso l’altra, rivelando l’implacabile costruzione della sua narrazione. L’ossessione di Semonovic per il suo frutteto diventerà sentore e specchio di quella di Kovrin (dopo l’incontro col monaco, infatti, Kovrin inizierà a vivere un doppio livello di consapevolezza – quello della realtà e quello delle sue aspirazioni), la doppia natura del primo aprirà perciò la porta per quella del secondo, l’intreccio amoroso tra i due giovani verrà devastato proprio da queste premesse (gli incontri tra Kovrin e il monaco si susseguiranno al punto che Tanja, preoccupata per la salute mentale dell’amato, gli proporrà di farsi curare). Senonché la cura (e qui si torna all’incipit, al bisogno di cure con cui si era aperto il racconto: e se la malattia del protagonista fosse la normalità?) si sostanzia in una limitazione della felicità di Kovrin (Kovrin è felice e produttivo quando è in compagnia del monaco): la cura serve a lui o alla società che lo vuole ingabbiare?

Il finale, una volta riunite le tre parti della storia, diventa un’esplosione di conseguenze. Con il consueto, infallibile gioco di rimandi (i pezzi di carta di una lettera stracciata, le parole finali del monaco, il destino del frutteto) Cechov intesse tutti i fili della sua storia, trascinandola verso l’inevitabile, portandoci nel contempo a riflettere su ciò che siamo e ciò che vorremmo, mettendoci a confronto con la schizofrenia, molto moderna – un altro dei mille motivi per cui leggere Cechov oggi – tra quello che è il dovere (o il conformarsi a esso) e ciò che rappresenta l’aspirazione ad altro, e che pare esserci impedita dalla contingenza del quotidiano. E dove la follia appare un percorso non peggiore di altri per giungere alla scoperta della propria identità.

Per certi aspetti un racconto mostruoso (per tematica, forma, resa emotiva), in cui Cechov dispiega la struttura monumentale di un romanzo comprimendola nelle poche pagine di un racconto, lambendo la perfezione.

Si legge spesso di come Anton Cechov si ponga come inevitabile pietra di paragone per chi voglia scrivere racconti, di come la sua efficacia narrativa sia qualcosa cui tendere. Ecco, leggere un racconto come “Il monaco nero” dà una precisa misura della giustezza di tale affermazione e della grandezza di questo scrittore immenso.

Ivan Zampar

Il monaco nero di Anton Cechov, tratto da I grandi racconti ed. Garzanti – Garzanti per tutti, I grandi libri 1965; versione di Ercole Reggio e Marussia Shkirmantova; 413 pagg.

Le altre recensioni della rubrica Raccontando… le trovate a questo link.

In Copertina: Foto di Fabio Gon, Nebbia su tela

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