Wir könnnten genauso gut to sein, di Natalia Sinelnikova, Germania (2022)
Eccola, la visione più bella, per chi scrive, del Trieste Film Festiva Trentaquattresima edizione. Il film della Sinelnikova, proiettato al Politeama Rossetti il 28 gennaio, ha nel titolo la sua chiave (Potremmo anche essere morti, We Might as Weel Be Dead).
Il condominio oasi in cui ci si rifugia da una società terribile (non si sa come sia questa terribile società ma bastano pochi indizi per capirlo: la prima famiglia che arriva ha delle scuri in mano, che deposita prima di entrare…) è blindato e vigilato. Chi ci entra deve essere utile a quella società condominiale e isolata e deve sottostare, ovviamente, a delle regole quali: non seminare il panico, essere sempre sorridente e gentile, essere esplicitamente utile con il prossimo e così via. Questa la base da cui si innescano tutte le successive dinamiche, che si possono prevedere se si inseriscono come protagonisti una persona un po’ diversa (una donna polacca in una comunità tedesca) con la figlia adolescente (in piena crisi e con manie di persecuzione).

La commedia nera (dark comedy) è sempre più incalzante e la percezione della fine si chiude a cerchi concentrici fino a che non si scopre di soffrire di claustrofobia, ma oramai è troppo tardi: si è già finiti, si è già presi da questo meraviglioso film. Un film che oso dire pienamente mitteleuropeo: molte inquadrature (quasi sempre di interni) sono scale, stanze e appartamenti che ricordano di peso molte descrizioni e soprattutto l’aria pesante che aleggia nei romanzi del troppo dimenticato Stelio Mattioni (in primis quello di Il re ne comanda una, ma non solo). E questo è già una garanzia di visione.
La fine, abbastanza prevedibile e splendida, troverà madre e figlia scacciati dalla comunità oramai quasi impazzita dalla paura (con tanto di ronde poliziesche e punitive) che accentuerà la sua inclinazione totalitaria in una spirale che si può solo immaginare ma che non potrà che finire malissimo.
Appena imboccata la strada che, come nelle favole, porta nella selva (la foresta nera) le due esuli incroceranno nuovamente la famiglia che abbiamo incontrato all’inizio e che ritenta di entrare. La protagonista tiene in mano, unica arma di questa società invisibile e temibile, una zappetta da giardino.
In sé non originale ma meravigliosa, la commedia nera (si ride veramente poco) si può prestare a diversi livelli di riflessione. Di questa distopia comica non troppo lontana dalla realtà ne evidenzierò brevemente un solo livello, il più esplicito forse: più la società allontana (il diverso) per paura, più si chiude per morire (suicida).
Questa narrazione filmica (fiction) di una separazione – voluta, forzata – dalla società, vuoi per sopravvivenza vuoi appunto per paura o psicosi in modo da vivere in una specie di isola, di laboratorio sociale impazzito, trova degli echi e dei risvolti interessanti in un documentario della Veronika Lišková che, a prima vista, sembrerebbe entrarci poco.

Návštvěníci, Veronika Lišková, Repubblica Ceca-Norvegia-Slovacchia (2022)
Il 27 gennaio, il giorno prima del film della Sinelnikova, è stato proiettato al cinema Ambasciatori e sempre per il Trieste Film Festiva Trentaquattresima edizione (concorso documentari) Návštvěníci (Visitatori / The Visitors), un documentario intelligente e decisamente attuale.
L’antropologa slovacca Zdenka si trasferisce per due anni, con il marito e i tre figli, a Longyearbyen, la città più abitata delle Svalbard, le isole polari della Norvegia, nonché, come conferma Wikipedia, il centro abitato con più di 1.000 abitanti più a nord del mondo, per studiare le dinamiche sociali e l’effetto, che direi più precisamente urto o collisione, della globalizzazione.
La fotografia e il paesaggio di quei remoti e straordinari territori tramortiscono piacevolmente l’occhio dello spettatore (molto diverso ovviamente l’effetto per chi ci abita).
La cittadina era nata come miniera di carbone (e prima ancora per la caccia alle balene) ma poi si è trasformata in avamposto turistico per la (finta e pagante) conquista polare di ricchi o benestanti turisti del post colonialismo contemporaneo. Non un non-luogo, certo, ma un luogo che dopo lo squilibro dello sfruttamento minerario ha subìto un secondo squilibrio, quello dell’invasione turistica. Ma questa tematica, decisamente importante, fa solo da sfondo al documentario che si concentra sulle ricerche dell’antropologa in merito a questa città unica. Longyearbyen nonostante la neve, il ghiaccio e i venti polari richiamano, almeno a me, Dubay: se la seconda è una delle città più inquinanti del mondo, la prima non le dista molto in merito a sostenibilità, anzi; inoltre sono entrambe distaccate, separate da ogni altra città e tutte e due potrebbero tranquillamente essere delle colonie lunari o marziane.
Gli spezzoni delle interviste ai residenti mostrano quanto sia eterogenea (e studiata) la comunità locale: solo il 10-20 % è norvegese e per questo, da pochi anni, per ottenere la cittadinanza è obbligatorio aver vissuto almeno tre anni in Norvegia. La ricerca di Zdenka non va quindi allo scioglimento degli iceberg o del permafrost ma alle originali e un po’ claustrofobiche dinamiche comunitarie che, in una tensione crescente, porteranno all’abbandono anticipato dell’antropologa da Longyearbyen.
Ricapitolando, quello che accomuna le due proiezioni, il film della Sinelnikova e il documentario della Lišková (e quindi fiction e non fiction) è l’isolamento sociale totale e le dinamiche di tensione: anche in questo caso arte e realtà sono andate a braccetto senza apparentemente frequentarsi…
Riccardo Redivo