TRIESTE FILM FESTIVAL TRENTAQUATTRESIMA EDIZIONE – 2024
Vi presento Toni Erdmann (Toni Erdmann) di Maren Ade (Germania – Austria), 2016
La trasformazione improvvisa e impulsiva di Winfried è un tentativo coraggioso di uscire dagli schemi del rapporto padre-figlia. Toni Erdmann nasce dalla disperazione. L’umorismo è spesso un modo per affrontare le cose, e come tale è anche il prodotto di una situazione dolorosa. Winfried non riesce a comunicare con sua figlia in nessun altro modo … L’umorismo è la sua unica arma… Maren Ade
Proiettato il 22 gennaio alle 21:00 al Teatro Miela, un film come questo, dall’implicito valore universale e da un’ottima recitazione, non poteva non vincere dei premi. E difatti, oltre a varie candidature (Palma d’oro, Oscar, Golden Globe, Goya) ha vinto il Premio FIPRESCI al Festival di Cannes (2016) ed è stato il Miglior film agli European Film Awards (2016).
Un padre, i cui comici e sfacciati scherzi rasentano la disperazione, prova a migliorare, se non proprio a riallacciare, il legame con sua figlia Ines, donna d’affari ora a Bucarest. Proprio in quella città la va a raggiungere senza preavviso, mostrandoci quanto la macchina organizzativa razionale di quella vita-lavoro fagociti la figlia: è bastata una semplice domanda postale dal padre (Sei felice?) per scuoterla e farle iniziare un percorso nuovo o meglio, farle comprendere un percorso che già aveva dentro ma che non riusciva a sentire.
È un film sinceramente meraviglioso, spassoso e a tratti amaro e crudo, in cui si raggiungono attraverso gesti e dialoghi apparentemente superficiali, grandi profondità.
L’umorismo e il coraggio di usarlo o parlarne sfacciatamente è una, tra le non molte, possibili cure al dolore: in fondo il lungometraggio è un dolce commedia sull’umorismo, sul valore fondamentale dell’umorismo per far vivere con dignità chi lo percepisce e lo regala senza tanto giudicare. Un esempio: il padre, non più Winfried ma Toni Edermann, personaggio inventato (un life coach sui generis) che genera una dinamica coraggiosa e spiritosa, durante la visita a una fabbrica si nasconde per fare un bisognino ma viene visto da un povero – contadino o operaio manifestamente indigente – che lo invita a farla nella sua umile, umilissima dimora, una catapecchia; prima di chiudere la porta, nella lingua che non comprende, gli dice di stare attento a non farsi morsicare dalla tigre disegnata sulla tavoletta del water. Una battuta, fatta poi da un personaggio secondario, che sembra niente, ma che nel film risulta dolce, poetica e decisiva ai fini interpretativi (e certo c’è sempre l’amaro in bocca): come se la dignità fosse data dalla presenza di spirito, non dalla giacca che si porta addosso o dall’auto che si possiede. E questo Winfried/Toni Edermann lo sa, e presto lo saprà anche la figlia.
L’equilibrio della storia poi è leggero e dolce e rimane costante nonostante molte scene e situazioni ai limiti del grottesco, che però non valica mai.
Il coraggio del padre di porsi in un modo – inventarsi sketch, gag e personaggi – e il coraggio della figlia a reagire in un altro – come nella scena epica, di pura verità, in cui decide di fare una festa per il suo compleanno scegliendo improvvisamente, tra il nevrastenico e il consapevole, di presentarsi nuda, proprio come la verità – sono forze che toccano prepotentemente l’animo dello spettatore.
Non sono convinto che tutti i livelli di lettura in Toni Edermann siano stati previsti e voluti dalla sceneggiatura: questi sono come le corde del sitar, si muovono alcune in modo volontario ma altre no, si muovono per conto proprio (per simpatia) producendo suoni o significati imprevedibili…
La conclusione può apparire triste, ma non lo è perché compare la battuta – amara, vera, sincera, indiretta – più profonda del film: il padre, dopo aver detto che nei rari momenti belli della vita non si ha mai sotto mano una macchina fotografia – come quando la figlia è andata per la prima volta in bicicletta – perché ci si accorge di loro quando oramai sono già passati, se ne va via dicendo di andare a prende la macchina fotografica proprio dopo che sua figlia ha dimostrato, all’inizio spontaneamente ma poi consapevolmente, il valore (e il potere) dell’umorismo: la figlia, nell’ultima scena, ruba dalla tasca del padre i denti posticci che usava quando “recitava”, e se li mette. E così, in solitudine e maestà, finisce il film (perché ovviamente il padre non ritorna).
Un’ultima considerazione: il nudo in questo film come in altri di questa rassegna (To tylko/až ciało… albo krótki fim o wolności – È solo/non solo un corpo… e Zielona granica – Green Border) rappresenta il vero, la verità che qui è anche uno scherzo quasi feroce. Questa antica allegoria viene confermata dal fatto che il papà alla festa “nudista” si presenta con una maschera straordinaria, un costume bulgaro totalmente peloso, come una specie di mammut in posizione eretta (o un cugino It molto più alto e grosso): un’esplicita maschera di pelo (che non a caso rischia a un certo punto di soffocarlo) contro un’esplicita nudità senza pelo (che le ha appena restituito il respiro)…
Trailer: https://youtu.be/j081-rShgtQ