Della necessità del Trieste Film Festival in questa città dal passato piacevolmente contaminato e cosmopolita non occorre dir molto, i suoi programmi parlano da sé.
Trieste è stata la meno italiana delle città italiane e alcune testimonianze residuali lo dimostrano essere ancora: il TFF, nella sua XXVIII edizione, è una di queste, e lo lascerò parlare, per puro e meraviglioso debito, in un fil rouge del tutto soggettivo.
La serata inaugurale (20 gennaio) s’è aperta con il film Učitel’ka (The Teacher) di Jan Hrebejk (Slovacchia-Repubblica Ceca).
La storia, che si svolge nella Cecoslovacchia socialista dei primi anni Ottanta, racconta di una maestra che fa lavorare per scopi personali alunni e genitori della propria classe; se ne approfitta ricattando più o meno esplicitamente le famiglie (non aiutarla significa ricevere brutti voti). La storia, fanno sapere, è realmente accaduta e rimane decisamente attuale, se non proprio in riferimento alla scuola, almeno alla politica: i genitori coinvolti che riescono a soddisfare i desideri della maestra sono premiati, quelli che non ci riescono economicamente o non vogliono moralmente farlo sono penalizzati. Le dinamiche truffaldine le scopriamo esplicitamente in una riunione non autorizzata indetta dalla preside. Alla fine si riescono a trovare le firme per denunciare la maestra e farla allontanare dalla scuola (l’azione dei genitori era rischiosa perché fino alla fine chi firmava poteva ritrovarsi solo e venire allontanato assieme ai figli). Se il gesto collettivo è decisamente positivo, la sua conclusione continua a farlo diventare attuale: la maestra ricomincia con la sua solfa opportunista in un’altra scuola.
Comunque sia, grazie alla resistenza e alla convinzione di alcuni genitori la maestra viene denunciata. Un esempio di resistenza, convinzione e passione lo troviamo anche in Roentgenizdat – The Strange Story of Soviet Music on the Bone (21 gennaio) di Stephen Coates e Paul Heartfield (Regno Unito), un documentario – un po’ troppo superficiale nonostante l’argomento potenzialmente molto interessante e nonostante la X-Ray Performance, esibizione dal vivo di Marcella Puppini assieme al regista Coates con la registrazione in diretta su dischi X-Ray a cura di Aleks Kolkowski – sulle modalità di contrabbando della musica proibita dal regime sovietico (dal ’46 al ’66, fino all’arrico dell’audiocassetta).
Rock ’n’ roll, jazz, qualche cantautore russo e vari generi e autori venivano spacciati negli angoli bui di alcune città della Russia sovietica (Mosca, Leningrado, ma anche Kiev, etc.), nascosti dentro le maniche dei cappotti. I pusher musicali riproducevano la musica proibita sulle lastre dei raggi X, per un risultato economico e di bassissima qualità. Chi veniva pizzicato andava in galera, ma non bastava a fermarlo (uno, oramai leggendario, ci andò 3 volte per 5 anni…).
La passione e l’amicizia per la musica si rintraccia anche in un altro film, Babylon sister (22 gennaio) di Gigi Roccati (Italia), di ambientazione triestina: il lungometraggio narra la storia di una famiglia indiana e degli inquilini del loro stabile fatiscente nel quartiere Ponziana di Trieste, che faticano a vivere tra soprusi, povertà e solidarietà.
Il film culmina nella realizzazione del desiderio di Shanti, quello di ballare, grazie alla creazione di una scuola di ballo, e in una sfida finale alla West Side Story, ma bollywoodiana e all’acqua di rose. La scarsa originalità della storia non intacca però l’ingenuo e prezioso messaggio del regista, che ha fatto bene a realizzare il film: l’interculturalità e la multiculturalità del passato triestino trova qui nuova veste e diventa una festa.
La festa, l’amicizia e la solidarietà abbattono le barriere, visibili e invisibili. E le barriere spesso sono muri, come la Cortina di ferro: Koudelka, il fotografo narratore dell’invasione russa nella Cecoslovacchia durante la Primavera di Praga (gennaio-agosto ’68), è stato omaggiato (23 gennaio) con un documentario (vincitore in diretta della sezione Art & Sound del festival), Koudelka Shooting Holy Land di Gilad Baram (Germania-Repubblica Ceca) che descrive un suo lavoro in Israele e Palestina. Nel documentario, seduto sotto il muro chilometrico che divide i territori, riflette che stanno distruggendo il paesaggio; nella realtà, a una domanda del pubblico in sala che lo voleva schierato politicamente, ribadisce: Se è corretto dichiarare crimine contro l’umanità è altrettanto corretto dichiarare crimine contro il paesaggio. Che cosa pensare di Trump, aggiungo e domando io, che ha appena confermato la notizia di voler ampliare il muro con il Messico?
Contro muri virtuali, ancora azioni concrete e musica: il documentario Vystuplenie I Nakazanie (Act&Punishment) (Russia) sulle Pussy Riot (27 gennaio) parla di questo e di come, alla presenza di una delle componenti, Masha Alekhina, si possa esprimere il dissenso e resistere (il gruppo musicale e artistico venne arrestato e imprigionato perché protestava, con performance artistico-musicali provocatorie, contro i metodi e il sistema di Putin).
La Alekhina ha affermato di aver bisogno della vita e dell’azione diretta, che il futuro è l’azione di ogni persona, e che sente il richiamo dell’immediatezza: un’applicazione concreta a un’urgenza altrettanto concreta.
Se non si riescono a buttare giù i muri, possono esserci i ponti, anche culturali, ad abbatterli: nella serata finale (28 gennaio), quella della consegna dei premi, è stato proiettato l’ultimo film di Kusturica, Na Mliječnom Putu (On The Milky Road) (Serbia-Regno Unito-USA), con Monica Bellucci (presente in sala e che ha ricevuto il premio Eastern Star). L’attrice italiana è stata indicata come ponte tra due culture. Il film è un favola – o meglio, una volontà di favola – non riuscita: il grottesco, il comico, il lirico, il romantico e la suspance non si incontrano quasi mai, e non c’è coerenza; inoltre, le piccole intuizioni riuscite (soprattutto quelle riguardanti gli animali, come le oche che si bagnavano di sangue di maiale gettandosi nella vasca che lo raccoglieva, o la gallina che saltava davanti allo specchio o il falco che volava sui due fronti, indifferente alla guerra) sfumano e si perdono subito. Non un film brutto, ma forse non proprio giustificato (la colonna sonora però è adatta e assai bella la fotografia).
Insomma, il TFF continua ad essere necessario a questa città ricordandole di essere ancora l’ombelico di molte cose, passate, presenti e, speranzosamente, sperabilmente, future…