“Io credo che una rivoluzione possa cominciare da questo filo di paglia. A prima vista può sembrare leggero e insignificante. Nessuno penserebbe che abbia il potere di scatenare una rivoluzione. Ma lo ho cominciato a capire il peso di questo fio di paglia. Per me questa rivoluzione è molto concreta”
(Masanobu Fukuoka. La rivoluzione del filo di paglia)
Da alcuni mesi a Trieste giriamo le panetterie (parola graziosamente demodée, sostituita in ogni altra città con panificio) alla ricerca di un pane “buono fino in fondo”. Ovvero buono al gusto e alla consistenza (anche il giorno dopo) ma anche ad alta tracciabilità. E lavorato ad arte.
Alcune tra queste panetterie sono state già segnalate in questa rubrica. E ovvio che non si tratta di un elenco chiuso ed esaustivo. E la ricerca continuerà.
Ma perché abbiamo segnalato finora proprio quelle?
Hanno dimostrato piena trasparenza nelle informazioni, ci hanno raccontato la loro storia, ci hanno aperto i loro laboratori mostrandoci passo passo cosa fanno ogni giorno e con quali materie prime operano. Ci hanno comunicato la piena tracciabilità e trasparenza.
Lavorano in modo del tutto artigianale: utilizzano impastatrici e forni elettrici o a gas, ma molte tipologie di pane sono realizzate a mano, passando un pezzo alla volta tra le mani.
Sono tutte piccole attività che vengono portate avanti in famiglia, e solo così possono sopravvivere: ‘esistenza diffusa di pane a buonissimo mercato (e bassissima qualità) come quello proposto nella grande distribuzione, le rende oramai non concorrenziali nel prezzo. Impossibile, in quelle collocazioni e dimensioni, mantenere dipendenti.
Scelgono le materie personalmente, conoscono bene i loro fornitori e le provenienze della farine. Purtroppo queste nella maggior parte dei casi arrivano da Canada, Australia, Stat Uniti. Questo è un dato negativo, naturalmente. I nostri panetteri dipendono dal mercato delle farine gestito dai grandi mulini industriali. Solo in un caso (la panetteria Gasperi) viene realizzato, tra gli altri, un tipo di pane con farine prodotte localmente e macinate sul luogo (in Slovenia, a pochi km da Trieste). Su questo sarebbe auspicabile uno sforzo in ricerca e sperimentazione. Perché la filera corta è una grande garanzia per un prodotto veramente buono.
Non utilizzano nessun prodotto ausiliario o miglioratore. Fanno il pane come si faceva 60 anni fa: farina, acqua, lievito. Alzandosi ogni giorno intorno alle 3 del mattino.
Producono poco pane, lo vendono direttamente ad una clientela affezionata. Sono rimasti panettieri. Ovvero, anche se nelle loro botteghe si possono acquistare il latte fresco, i pacco di biscotti o il succo di frutta, restano fondamentalmente puri panettieri. E di pane vivono.
Tutto questo significa molta fatica.
Sotto sotto continuano e non mollano perché mettono in pratica un grande amore e una autentica passione per il pane.
Fare il pane. Un lavoro, un’arte forse. Antica quanto la cività. Queli come loro ne sono i custodi. E nel loro gesto quotidiano di alzarsi nel cuore della notte, aprire bottega, impastare, attendere la lievitazione, creare le diverse forme e poi cuocerte tengono in vita e rinnovano un patrimonio di storie e sapori che altrimenti noi tutti saremmo destinali a perdere. Lavorano per se stessi, è vero. Ne ricavano il loro reddito.
Ma lavorando in questo modo, diventano preziosi per tutta la collettività. Andare a conoscerli, regalarsi il piacere di una chiacchiera con loro e passaggio del loro pane è come leggere una poesia. O ascoltare un bel pezzo musicale. E un gesto culturale: semplice, piacevole ma di grande valore. Significa contribuire a salvare pezzi di autenticità nella città in cui viviamo.
Ma siamo noi a doverti cercare. Perché il fornaio o pek, come si dice con parola triestina (prestito sloveno, da pek, forno), che abbiamo raccontato in questi mesi è assolutamente no marketing.
Non sbandiera niente. Non confeziona nulla di quello che fa in un involucro di immagine artefatta. Queste panetterie sono luoghi essenziali e senza fronzoli. Niente tv al plasma che trasmette video ammiccanti. Niente spot a luce calda (e ad alto consumo energetico, tra l’altro). Niente arredamento minimal e colori trendy. Niente. Piccoli luoghi puliti e sobri. Qualcuno, come la panetteria di Marino Cerni, lo fa con assoluta consapevolezza di voler offrire ai clienti un luogo in cui sia il pane a doversi vedere prima di tutto. E sentire. Come testimonia il profumo che ti investe appena varcata la soglia. Altri semplicemente non hanno più energie per pensarci, come il caso della panetteria di Eligio Sanna, il senior tra gli intervistati, in cui però non manca mai una vetrina, pur semplice, in cui i pane è solo protagonista.
Oppure, ancora, non lo valutano forse importante e preferiscono, come nella panetteria di Piero Fontanot a Katinara-Cattinara, presentarci un luogo di pulizia impeccabile (cosa per nulla scontata nei luoghi cittadini, anche trendy, in cui si vende pane) ed i sorrisi, nonché la disponibilità a descrivere bene il prodotto che realizzano e vendono.
La relazione. Offrire un prodotto, per venderlo, ma anche per raccontarlo. Ecco l’ultimo dato in comune tra questi panettieri che abbiamo finora scelto. Il pane raccontato nel luogo in cui viene fatto.
Raccontato a voce, con calma, guardandosi e chiacchierando. E se fosse questo i marketing del futuro?
Panetteria Piero Fontanot
Strada di Fiume 378 Katinara Cattinara (fronte ospedale) Trieste
Panetteria Eligio Sanna
via Soncini 149 Servola Trieste
Panetteria Marino Cerni
Via Crispi 39 angolo via Gatteri (laterale Viale XX settembre) Trieste
Panetteria Gasperi di Leo Zetko
Via Carducci 39 (fronte mercato coperto) Trieste
Le recensioni sulle panetterie triestine continuano su
http://filodipaglia.wordpress.com/
Simonetta Lorigliola
filodipaglia@autistici.org
Tratto da Konrad numero 184 di Marzo 2013
