Dieci anni fa esatti feci uscire un raccontino sul Konrad cartaceo (n° 186, maggio 2013) nato dall’esasperazione di un Porto vecchio (Punto franco vecchio) che non voleva decollare, abbandonato e sempre in perenne fase di pronta teorica rinascita (almeno per i politici che erano succeduti durante i molti lustri di abbandono). A quei tempi si stava muovendo qualcosa, ma erano ancora chiacchiere che non portavano quasi niente.
Mi sembra utile riproporlo – senza alcuna modifica – anche in vista dell’aberrata aberrante ovovia: al suo interno c’è un riferimento preconizzatore a tale aberrazione ma, come leggerete, come una semplice boutade (ho scoperto da non molto tempo che il primo a parlarne seriamente è stato l’architetto Mario Zocconi che ha progettato – con un disegno mi tocca dire affascinante – una seggiovia da Barcola alla Vedetta d’Italia di Prosecco, con tanto di ristorante, già nel 1949).
Buona lettura.
Un futuro nel Portovecchio
Che roba, ancora non ci credeva, ogni volta che passava di là non ci credeva, ma era cosi. Giuseppe,
vedendosi riflesso sul mare perché pedalava vicinissimo all’orlo della banchina, pensava che non avrebbe mai smesso di stupirsi. Il sole aveva appena incominciato a mostrare i suoi raggi e a quell’ora nessuno era ancora in giro. Si sentiva leggero per la soddisfazione di aver consegnato la tesi su quel terreno erboso che ora stava attraversando e che una volta era stato il Punto Franco Vecchio.
Non aveva chiuso occhio non solo per l’eccitazione e quasi il vuoto senza appigli provati dopo la consegna, ma perché aveva passato tutta la notte a far compagnia a Italo, miracolosamente in vena di chiacchierare. L’argomento della tesi era trito e ritrito, ma la sua originalità stava nell’aver comparato i dati storici col punto di vista dei testimoni, degli unici pochi sopravvissuti, a cominciare dal nonno Massimiliano. Nonno Max… Forse, se avesse retto ancora meno di un mese, sarebbe riuscito a sentire i propri ricordi dalla bocca del nipote che li raccontava alla commissione. L’aveva scritta per lui, alla fine.
Il mare s’increspava come il battito delle ali del gabbiano che stava vedendo e che immaginava felice come lui.
Il Pontone Ursus era stato portato – Abu Simbel in miniatura – dove Giuseppe l’aveva sempre visto, al posto della chiesa formaggino di Monte Grisa, come nonno Max la chiamava, e utilizzato come pilastro per una teleferica che giungeva fino a Barcola. Aveva veduto il suo sviluppo nel tempo, tramite foto e documentari, e, da una violenta bestemmia iniziale, si era arrivati a oggi, non un granché, ma comunque contornata di alberi e nuvole, e un’attrazione per i turisti.
Ma era l’antico porto a sorprenderlo sempre, quel porto che ora con Il verde privo di auto reggeva il suo peso e favoriva le sue pedalate in cerca di Teresa.
Però, in quale edificio si teneva la mostra? Ce n’erano almeno cinque, tra musei, gallerie e spazi espositivi da dover scegliere. E senza contare le sale delle associazioni.
Era da più di quattro mesi che Teresa stava dietro a questa mostra, non la prima, ma forse la più importante, che avveniva proprio in concomitanza con la tesi di Giuseppe. Lui aveva appena finito – la discussione era solo la ciliegina sopra una torta durata cinque anni – e anche lei oggi doveva finire l’allestimento.
“E quasi impossibile che non ci fossero alberi… e poi qui t’ho incontrata… nemmeno queste colonne, questi dock bellissimi e….” Ma da lontano la vide, vide Teresa che stava scaricando i suoi quadri al Magazzino 26, uno dei primi palazzi a essere stato bonificato.
Dopo essersi abbracciati ed essersi comunicati quello che una prosa non potrà mai dire, volle farle vedere il vecchio perimetro del Punto Franco Vecchio, che una volta non faceva parte del parco che ora finisce naturalmente in piazza Unità, ma era molto più piccolo e stretto.
“Punto? Ma che strano, no?” disse Teresa.
“Mah, si chiamava cosi… E forse è stato quel nome ad averlo incagliato per decenni, come se nessuno a quel tempo avesse avuto la capacità d’inventare una frase qualunque da far seguire a quel punto. Ma per fortuna, ai tempi in cui mio nonno non aveva ancora la patente, successe quello che per me era logico e inevitabile ma che sembrava ai contemporanei un miracolo. Aprire il Porto, continuare il Punto.”
“Ti seguo, non pienamente – non ho fatto mica io la tesi! -, ma ti seguo.”
Lui continuò: “Prova a immaginare questo parco senza i suoi alberi, senza le barche a vela, senza il suo silenzio naturale, senza gli uffici del WWF, del Konrad, senza questa biblioteca sul mare invidiata da ogni città costiera d’Europa, prova a immaginaria senza il palazzo in cui puoi esporre le tue opere, senza quest lunghi palazzi che una volta erano magazzini diroccati, inutilizzati per anni e anni e lasciati alle incurie del tempo…
“Si, me l’hai già detto, le mura di pietra, le colonne in ghisa e le travi in legno abbandonate e pericolose.
“Un luogo abbandonato da tutti. No!, da tutti no, la legge e la burocrazia non se ne dimenticavano mail E provati anche a immaginare che il terreno, nella parte che ora si restringe leggermene prima di aprirsi sulla strada che porta al Castello, era pieno di rifiuti tossici, inquinati da tanti triestini più o meno consapevoli dei danni che stavano causando e…”
Ma lei non lo ascoltava più, guardava immaginandosi tutto, e si diceva che, se nel mondo esistevano cose peggiori, qua almeno qualcosa andava, e il passato poteva essere migliorato con un qualche futuro, magari anche in quei luoghi tristi.
Lui, dopo averla vista immersa nei suoi pensieri, la baciò mentre i gabbiano di prima, fra le nuvole e il sole, gettava un’ombra fugace sulle loro teste, come a dare una benedizione o a ricordare che la vita continua nonostante tutto.
Riccardo Redivo
Da KONRAD ed. MAGGIO 2013