Conoscere è il lavoro di una vita. Non solo per chi si occupa di ricerca ma per qualsiasi essere vivente. Il conoscere inizia dai sensi, dalla percezione, primo atto di un’impresa volta a dare un senso al mondo che ci circonda, un mondo in costante mutamento e talmente ricco di stimoli che è impossibile abbracciarlo (com-prenderlo, appunto) con un unico sguardo. Ecco che la mente, nell’atto di percepire, non ci restituisce una copia esatta del mondo ma, potremmo dire, una sua rappresentazione che inevitabilmente è frutto di compromessi e omissioni. Quante volte pur guardando non vediamo o quante volte pur sentendo non ascoltiamo? O ancora, quante volte lo stesso evento viene vissuto in maniera diversa da due persone distinte? La nostra realtà è evidentemente fatta di verità parziali. Ma non solo: conoscere è un processo attivo, decisamente creativo. Potremmo dire, con le parole del pittore surrealista René Magritte:
La realtà non è mai come la si vede: la verità è soprattutto immaginazione.
Il modo del tutto singolare con cui ognuno di noi viene a conoscenza del mondo è alla radice della nostra soggettività. In questo contesto, il metodo scientifico si configura come una strategia che, grazie alla riduzione dell’esperienza a esperimento (una forma strutturata e controllata di esperienza), cerca di far ordine in questo caleidoscopio epistemologico tentando di creare saperi condivisibili. Nonostante il rigore che caratterizza i suoi metodi però, persino la scienza necessita di creatività (e perché no, immaginazione) nel formulare nuove ipotesi e di una buona dose di ermeneutica nell’interpretazione dei dati che spesso è tutt’altro che univoca. Un esempio?
Santiago Ramón y Cajal nacque il primo giorno di maggio del 1852 a Petilla de Aragón, piccolo paese iberico situato tra le montagne della Navarra, primo di quattro figli di Antonia Cajal Puente e Justo Ramon Casasus medico chirurgo e professore di anatomia alla Universidad de Zaragoza. Fin da giovane, Santiago si dimostrò essere un ragazzino ribelle, con una spiccata tendenza alla contemplazione del mondo naturale e una decisa ossessione per il disegno, che lo portò a voler intraprendere la carriera d’artista. Il padre, volendolo medico era contrario a quest’idea ma non riuscendo a distoglierlo dalle sue “deviazioni artistiche e letterarie” (in tal modo le definiva) decise di provare a incanalarle in qualcosa di “più costruttivo”. Così, decise di iniziare il figlio, allora sedicenne, allo studio dell’anatomia portandolo di notte, alla luce della luna, in un vecchio cimitero alla ricerca di scheletri esumati. Quelle ossa divennero presto soggetto favorito dei disegni di Santiago che finì con l’appassionarsi tanto all’anatomia da scegliere infine gli studi di medicina. Divenuto medico, decise di dedicarsi alla ricerca accademica. Affascinato dalla teoria cellulare nata una trentina d’anni prima, si specializzò in istologia, forse la più artistica tra le discipline biologiche. Allo scopo di studiare l’anatomia microscopica dei tessuti, vengono infatti utilizzati dei composti chimici in grado di conferire colorazioni diverse a diverse strutture cellulari altrimenti invisibili persino al microscopio. Proprio l’applicazione di queste tecniche di colorazione permise di confermare la teoria secondo cui i tessuti che compongono gli organismi animali sono effettivamente composti da cellule ma il sistema nervoso sembrava costituire un’eccezione alla regola. I neuroni sono caratterizzati da una morfologia molto complessa: un corpo cellulare da cui dipartono numerosi sottili prolungamenti che possono raggiungere anche lunghezze notevoli. Le tecniche istologiche allora disponibili mancavano di un potere di risoluzione sufficiente per stabilire se tali prolungamenti fossero connessi ai corpi cellulari. Di conseguenza, il sistema nervoso appariva costituito da una rete di fibre e non da un insieme di cellule specializzate.
Nel 1837 la svolta: il medico e istologo italiano Camillo Golgi mise a punto un metodo di colorazione dei tessuti nervosi detto “reazione nera” (utilizzato ancor oggi) che permise di ricondurre i prolungamenti formanti la rete a dei corpi cellulari. La conclusione di Golgi fu che il sistema nervoso fosse costituito non da sole fibre, ma da entità cellulari fuse tra loro a formare una rete continua, dando un decisivo contributo a quella che venne definita “teoria reticolare”. Santiago rimase molto colpito dal metodo di Golgi tanto da cominciare a utilizzarlo nel suo laboratorio. Sebbene le sue prove iniziali confermarono le conclusioni di Golgi, le migliorie che successivamente apportò a questa tecnica ne aumentarono il potere di risoluzione tanto da consentirgli di stabilire che, in realtà, il sistema nervoso è costituito da neuroni: entità cellulari a sé stanti (e non fuse insieme), separate fisicamente. La teoria cellulare valeva dunque anche per il sistema nervoso di cui il neurone, non la rete di fibre nervose, ne costituiva l’unità funzionale e strutturale fondamentale. Nacque così la “teoria del neurone”: il pilastro teorico delle neuroscienze contemporanee.
Santiago, non abbandonò mai la passione per il disegno e in più di cinquant’anni di carriera produsse di propria mano circa tremila disegni e litografie rappresentanti le sue osservazioni microscopiche. Di rado utilizzava la camera lucida (un apparecchio ottico utilizzato all’epoca per proiettare su foglio le immagini derivanti dall’obbiettivo del microscopio allo scopo di riprodurre con precisione ciò che si sta osservando) preferendo disegnare a mano libera per poter combinare in una stessa illustrazione diverse osservazioni da diverse sezioni di tessuto nervoso formulando ipotesi circa struttura, connessioni e funzioni del sistema nervoso attraverso i suoi disegni. Un caso esemplare di quanto, nella costruzione del sapere, di ciò che (non) sappiamo, il confine tra poetica (l’immaginazione, la creatività) e poietica (il fare con le mani e anche con la mente) sia labile. Ancora con le parole di René Magritte:
La poesia non ha nulla a che fare con la versificazione. Consiste in ciò che si trova nel mondo, al di qua di quanto ci è permesso osservare. Così, uno studioso al microscopio vede molto più di noi. Ma c’è un momento, un punto, in cui anch’egli deve fermarsi. Ebbene, è a quel punto che per me comincia la poesia.
Christian Memo