Sono una donna.
E cioè una poltiglia in amore lì che soffrigge dalla padella alla brace spantesante
di volta in volta su boe di fidanzati nel gran mare dell’essere;
ogni volta con il massimo senso tragico.
L’intensità di Bella pugnalata, di Alessandra Saugo e la sua densità sono una prova alquanto rara di una scrittura che in questi tempi molto aridi riesce ancora a dimostrarsi letteratura, può ancora avere la funzione generativa dello stupore, di contaminare, di camminare in sentieri scomodi, sommersi, poco trafficati, discostati, che portano a luoghi piuttosto singolari e solitari, sempre fortemente umani.
Alessandra Saugo è una piacevole miscela di scrittura, chi la legge riconoscerà molti stili, molti saliscendi (dal beat all’invettivo, dallo stile confessionale a quello di Moresco – che non a caso troviamo nei ringraziamenti, direi quasi come nume tutelare – dallo stile aulico, lirico a quello colloquiale e volgare) che, nel loro naturale srotolarsi, danno la prova della propria originalità.
Una potenza intrinseca della passione travolta dall’esistenza o dell’esistenza travolta dalla consapevolezza di uno sguardo diverso, problematico, femminile.
La sperimentazione spontanea del linguaggio, disseminata qua e là, è un’esigenza fisiologica della sua anima, o della sua mente; una necessità che alle volte la può rendere facile, infantile, elementare (come il non usare le maiuscole per i nomi) ma senza mai precludere la vita nella sua genuinità. Insomma, lo scavo non porta sempre all’oro, ma è una fortuna: il fango è molto più ricco.
È una scrittura cerebrale che si aiuta con la carne e la cui spinta confessionale rende carnale, sanguigno l’insieme. La nevrosi che si confessa tocca terra e sta meglio. Parlare, quindi scrivere, è per lei dare consistenza al pensiero, renderlo fisico, trasformando le onde del pensiero in parole inchiostrate.
Chi vuole avere qualcosa, chi vuole ricevere quello che ancora può dare la scrittura, legga questo libro, ma si prepari perché Saugo pretende, e va molto bene così. Io mi permetto di offrire alcuni tra i tanti frammenti che hanno coperto il mio cielo di lettore per mostrare, per indicare, per contornare meglio l’ombra e i suoi destini qui raccolti:
Mi assumo fino in fondo la responsabilità del brodo; e suonava impetuosamente tutto il suo sentimento penalizzato; noi siamo i premurosi sabotatori dell’intelletto delle grattugie; razza di frase superficiale letale. Mi fa da linguaccia dalle colonne di piombo vaginale del giornale femminile; sto nel profondo sì e no dei cuori; nel sacchetto cerebrale dei pantaloni; divento un luogo frequentabile delle passioni; l’incarico di anticipare i franamenti è la sfiga della mia sorte; la parola dentro sempre fuori e piena di colori come un’africa (a una maternità); io espugno vette di disamore dopo essermi arrampicata a sangue; io sono carne da nostalgia, se ne accorgono; e io mi sprovincializzo, magica sensazione provinciale; carnefice con il coltellaccio in gommapiuma; testosterone delle allodole; lo sperare è falsificabile; torni solo per scopare la carcassa del mio spaesamento; fanno la spesa tumefatte dalla solitudine e dal rapporto con la casa, avara di complimenti, avara di diversivi, polvere perenne, perenni detersivi; un quadro tanto cinico da diventare clinico; malinconia e ferocia, mi avete provocata un po’ troppo.
Alle volte, lo scavo della situazione, della descrizione (emotiva, narrativa o filosofica che sia) sembra essere un’allucinazione, ma non lo è; sembra avere i connotati di un’allucinazione ma è semplicemente una quotidiana esistenza, vissuta – e a noi descritta – come si deve: fortemente, sinceramente, in maniera dura, seria e ironica. Per questo è di poco conto analizzare se il libro è scritto bene o male: se arriva così, la forma è quella giusta, un po’ scomoda, nevrotica, patetica alle volte, ma potente, profonda, per tutti gli esseri umani.
Il cielo è una campana, l’essere è un orecchio. No: il cielo è un orecchio mancante, l’essere la campana. Col batacchio sbatacchiamo, ruotiamo in capriole, circonvoluti, bimblanando penduli, altaleniamo, battiamo le mezz’ore, le ore, ondeggiamo sonanti, diffondiamoci nel raggio in linee d’aria aleggiamo, rintocchiamo, scampaniamo, tocchiamo ore su ore, emettiamoci, siamo fragori a festa mezzogiorni, mezzenotti, une, domeniche, feste del calendario, funerali, cuori campanari.
Ci sono molti accostamenti, se non proprio delle vere invocazioni, con autori noti (Plath, Campana, Dante, etc.), alcuni più presenti, alcuni più nascosti. Senza dubbio, Alda Merini è l’autrice più presente, ancora più di Moresco, e la sua influenza è evidente: con tutta la massa dell’amore sconnessa; e allora mi sono inalberata fino al soffitto dell’assenza; mi traini con tutti i paradossi del sentimento; anneghi nel tuo senso mosso delle cose (molto vicino alla poesia Ascolta il passo breve delle cose); era il contraltare della mia enfasi devozionale; una pietà erotica; il mio risentimento è vasto e pio, perché il risentimento è una forma di devozione; dramma del bracconaggio del mio cuore; sarebbe arrivato mai qualcuno a liberarmi dal sortilegio della manutenzione della rovina amorosa a cui ero addetta. A più di tre quarti del volume compaiono infine, con facile previsione, dei versi meriniani (Vedessi com’è grande il pensiero del mare) che s’incarnano nel testo, quasi senza soluzione di continuità.
Il libro è costellato di musica elementare, rime cerebrali, sfoghi sonori: nozioni di lozioni; la mia carne invogliata è tutta imbavagliata, rientrata, raffreddata. Tutta scaricata; scotennata con la testa scoperchiata; nel suo rinovellarmi situazioni di tangenze e secanze con le più disparate maestranze; ma ce n’è ben tante di più specchiate, di più truccate, di più ferrate a dar di gomitate; sventura la solitaria congettura; a vagare in perfetto naufragio, in mortale contagio, l’automa smorto, a disagio; l’interlocutrice, come una radice; sei la mia sbarazzatrice, nota attrice.
Frammenti di dialetto (lei è vicentina) entrano naturalmente nella sua scrittura emotiva (toso, schei, onfegato; ninin; fracca; ramena; mona; scoazza, spantesante) assieme a frasi e discorsi decisamente colloquiali: non so chi gli volesse bene, ma essendo parenti.; avanti senza un pomeriggio che sia uno, in cui qualcuno.; come se mi sarei schiantata a terra dal cielo se lui non mi prendeva.; ha spadroneggiato che basta.; come un moscerino autostradale che tu stai andando e io della tua corsa sono la travolta, che sta appresso e ci sono quelli che mamma/moglie sante: amate, asessuate, piedistallate. Ma la scrittura squilibrata non fa che arrivare equilibrata.
Il testo di Saugo ricorda in generale un diario, un memoir, un’autobiografia intima in cui figurano esternazioni intime, riflessioni esistenziali, brevissime considerazioni e tanto altro: O goffi! O profondamente goffi! Fondate eserciti e andata a imbarazzare tutte queste teste di cazzo mondane, andate a sparire ai loro occhi.
La confessione lirica, cerebrale, alle volte retorica, non infastidisce, è sua (si legga la lettera al caro dottore: RESISTEERE ALLA METAFORA DELLA FERITA).
Colpisce la scrittura, non la trama, il pensiero non le storie: quello che le succede, che ricorda, che condivide non sono situazioni speciali ma speciale è l’intimità, la profondità con la quale vive e che riesce a condividere.
La frase che per me racchiude il libro è: Ma chi resta deve poter guaire.
Alessandra Saugo, Bella pugnalata, Castelvecchi, Effige 49 Narrativa, pp. 157, luglio 2010
Riccardo Redivo