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Raccontando… Ernest Hemingway

Qualcuno potrebbe certo dire che la grandezza, o forse addirittura il genio, stia nelle grandi architetture del romanzo, nella struttura di trame vorticose, nei meccanismi a orologeria di certe costruzioni complesse e audaci. Quel qualcuno avrebbe probabilmente anche ragione, ma personalmente ritengo che la grandezza, e senza dubbio il genio, stia, principalmente, nella semplicità. Nella capacità, cioè, di raccontare con parole e linee narrative accessibili a chiunque questioni complesse, ma complesse perché riguardano tutti e diventano tali proprio perché è necessario trovare un metodo nuovo per raccontare cose vecchie, evitando di cadere nel già letto o nel già sentito. Riuscire, cioè, a raccontare una storia come se quella storia parlasse di/a noi.
Su nel Michigan una delle tantissime perle contenute ne I 49 racconti di Ernest Hemingway, fa proprio questo. Raccontare una storia semplice, in modo ancora più semplice. E, a dispetto di quella che può quasi risultare una vicenda banale, essere di un’efficacia totale.

Qui Hemingway si confronta oltretutto col tema più insidioso, quello dell’amore, delle sue corrispondenze e delle sue delusioni. Liz Coates lavora come cameriera da D.J. Smith e un giorno incontra Jim Gilmore, arrivato dal Canada. A Liz piace tutto di Jim (il modo di camminare, i baffi, i denti…), lo pensa in continuazione mentre, all’opposto, Jim, cui pure Liz piace, non pensa mai a lei. Queste le premesse, messe subito in chiaro da Hemingway nella prima mezza facciata. Nessun fraintendimento di ruoli, nessuna ambiguità: lei è innamorata, lui no. Tutto molto semplice, appunto.

Fatte queste opportune premesse, Hemingway lascia quindi che sia l’infatuazione di Liz per Jim a muovere tutta la vicenda, quando Jim lavora e lei lo pensa, quando Jim si allontana quattro giorni per una caccia al cervo e lei lo pensa, quando lui torna e lei vorrebbe dirgli tante cose. All’inizio, dunque, è lei il personaggio attivo, è il suo amore il motore della storia. Solamente che questa non è solo una storia d’amore. E se pure è il sentimento a farla iniziare e progredire, sarà la disillusione a concluderla. Così, con una specularità implacabile, ecco che sarà Jim, nella parte finale, a diventare l’elemento attivo – nel modo più odioso – complice il whisky e una visione delle cose che calpesta ogni romanticismo, lasciandosi dietro cocci e rammarico. Jim non è l’ideale costruito dalla fantasia di Liz, è solo un uomo come tanti, triviale, ordinario, le cui mani non sono adatte ad accogliere la promessa di dolcezza di Liz. Ma sarà davvero così? Oppure in quell’ultimo, bellissimo gesto di Liz si può leggere la speranza inarrestabile di ciò che vuole essere bello a dispetto di tutto?

La storia più vecchia del mondo, insomma. Eppure, come può essere così terribilmente efficace? Sulla tecnica di scrittura di Hemingway si sono riempiti libri – lui stesso ne parlava quando illustrava la sua teoria dell’iceberg, o raccontava del suo lavoro di sfrondatura – ma ciò che forse non viene sufficientemente esplicitata è la dote davvero essenziale che permea tutte le sue composizioni. Una dote che forse non è facile associare all’Hemingway uomo (dati i suoi ben noti eccessi), ma che va necessariamente riconosciuta all’Hemingway scrittore: l’umiltà. Un’umiltà quasi stoica, nel suo caso, un rigore morale e di metodo che egli si impone al fine di nascondersi dietro le sue storie, lasciando che lo stile utilizzato esalti e illumini il racconto e non l’ego del suo autore, il suo bisogno di far sapere quanto è bravo e quanto è capace. Un precetto quasi marziale, nel lavoro di Hemingway, fatto – e si torna all’assunto di partenza – di semplicità. Una semplicità, compositiva e morfologica, che (anche) in questo racconto trova un compimento esemplare. L’utilizzo di frasi minime (soggetto-verbo-complemento), l’uso parsimonioso di secondarie, il ricorso parco a un’aggettivazione essenziale (dolce, acuto, doloroso, caldo…), tutto questo dà ai paragrafi ritmo, velocità, perché non consente di indugiare su un particolare termine, su una particolare costruzione sintattica. E, tutto ciò, mentre Hemingway descrive immagini estremamente riconoscibili, facendo scorrere davanti ai nostri occhi le sequenze di un vero e proprio film. I verbi sono spesso verbi di azione, di movimento, la forma è quasi sempre attiva, non c’è praticamente traccia di sequenze riflessive. In questo modo tutto è rapido, visivo e il lettore è lì, dentro la pagina, dentro la storia. Al punto che, quando la storia è finita, è il lettore ad averla vissuta, al termine di un’esperienza di immersione totale e assolutamente vivida.

In pochi altri scrittori si può ammirare il metodo e il rigore come in Ernest Hemingway. Impararlo e metterlo in pratica, poi, è tutto un altro discorso. Per quello ci vuole la grandezza. Forse addirittura il genio. 

Ivan Zampar

Su nel Michigan tratto da I 49 racconti, Oscar Mondadori 2012, traduzione di Vincenzo Mantovani, 494 pagg.

Le altre recensioni della rubrica Raccontando… le trovate a questo link.

In Copertina: Foto di Fabio Gon, Cocci

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